Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente
- Autore: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli
- Genere: Storie vere
- Casa editrice: Skira
- Anno di pubblicazione: 2015
Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli (Skira 2015) racconta la storia di Fabio Maniscalco (Napoli, 1º agosto 1965 – Napoli, 1º febbraio 2008), specialista di tutela e salvaguardia dei beni culturali, noto soprattutto per il suo impegno nel campo della salvaguardia dei beni culturali nelle aree a rischio e di conflitto, morto a causa di un tumore provocato dall’esposizione all’uranio impoverito durante le missioni nei Balcani.
“Atterrare a Sarajevo: un’immersione nel buio, quasi una catabasi. Le porte dell’Europa si erano chiuse sui Balcani: al di là, un incendio era divampato e si era consumato nell’indifferenza generale. Superarle significava entrare in un mondo di cenere”.
Alle otto di sera del 20 gennaio 1996 l’aeroporto di Butmir era una striscia di terra risparmiata in un deserto di ne, ve e Sarajevo respirava nell’oscurità più assoluta, in un buio primordiale. “Un manto di pece senza stelle”. Il Tenente Fabio Maniscalco, laureato in Lettere Antiche, Ispettore onorario per l’archeologia subacquea del Ministero dei Beni Culturali, ottima conoscenza dell’inglese e del francese scritto e parlato, era appena atterrato nella città martoriata, partito da Capodichino su di un C-130. Non era stato un volo tranquillo, l’aereo si era lanciato in strane acrobazie durante l’ultima parte del viaggio, si trattava di un volo tattico per evitare l’eventuale fuoco dei cecchini. Quel senso di vuoto percepito fin dentro allo stomaco, quell’immensa voragine che aveva risucchiato suoni, immagini e parole, era una specie di pedaggio per Sarajevo, anzi era “l’ebrezza del Sarajevo Landing", espressione coniata durante l’assedio ed entrata poi nel linguaggio comune per indicare un particolare tipo di avvicinamento. Ma la guerra, quell’Olocausto degli anni Novanta, quella feroce pulizia etnica nei Balcani non era finita? I segni del conflitto erano visibili dappertutto perché i bombardamenti avevano colpito al cuore Sarajevo e i suoi abitanti. Con l’operazione Joint Endeavour, il primo scaglione dei duecentocinquanta bersaglieri della Garibaldi, tutti volontari che rappresentavano il contingente italiano dell’Implementation Force della Nato (Ifor), avevano già fatto un ottimo lavoro. Era ancora presto per parlare di pace, in virtù degli accordi di Dayton, Sarajevo doveva essere riunificata e i quartieri controllati dai serbi passare sotto il controllo dei bosniaco-musulmani secondo un preciso calendario. Ai militari italiani spettava il compito di assicurare il rispetto dei patti nella zona soggetta alla loro competenza: un’area di tremila chilometri quadrati compresa tra i quartieri orientali di Sarajevo, Pale e Gorazde. Un’impresa tutt’altro che facile. Come non era facile l’impresa del Tenente Maniscalco, giunto nella “città sopravvissuta all’inferno” per monitorare lo stato del patrimonio artistico di Sarajevo. Un’operazione di questo genere sarebbe stata di fondamentale importanza per la memoria del popolo bosniaco, soprattutto per le future generazioni. Per la prima volta nel dopoguerra si sarebbe applicato l’articolo 7 della Convenzione dell’Aja del 1954, l’articolo che prevede all’interno delle Forze armate la presenza di personale specializzato nella tutela dei beni culturali. “E il merito sarebbe stato dell’esercito italiano”.
Gli autori Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, entrambi giornalisti, rievocano il coraggio e la passione di un eroe dei nostri tempi, “giovane ufficiale dai modi gentili e tuttavia fermi”, che possedeva l’oro dentro. L’opera di salvaguardia di Fabio Maniscalco fu sempre rivolta a scongiurare la “damnatio memoriae”, perché l’archeologo per la pace era convinto, al pari del Principe Myskin del romanzo I fratelli Karamazov di Dostoevskij, che la bellezza salverà il mondo. Sempre.
“La pace, a Sarajevo, aveva il colore delle mimetiche dell’Ifor, si muoveva in un paesaggio desolato di lapidi bianche che bucavano la neve come ellebori fioriti, parlava la lingua di un Occidente rimasto troppo a lungo, colpevolmente, a guardare”.
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