Con il pensiero di Parmenide la filosofia scopre la sua natura più profonda: con lui nasce l’ontologia, la riflessione intorno all’essere, a ciò che davvero esiste al di là dei sensi, del cambiamento e del divenire.
Definito da Platone come un vecchio venerando e terribile, delizia degli studiosi e croce degli studenti che per la prima volta di avvicinano al pensiero occidentale, Parmenide è padre di concetti e di temi che appassioneranno i filosofi di ogni epoca e che sono ancora oggi attualissimi: basti pensare che la posizione del maggiore filosofo italiano del secondo Novecento, Emanuele Severino, è spesso etichettata come neo-parmenidismo.
Con la filosofia di Parmenide il pensiero greco giunge a degli avanzamenti decisivi: senza le sue domande non sarebbero state possibili posizioni opposte e feconde come quella di Democrito e degli altri fisici pluralisti né, soprattutto, avrebbe visto la luce il pensiero di Platone.
La vita di Parmenide e la scuola eleatica
Vissuto tra il VI e il V secolo a.C. (secondo alcuni tra il 515 e 436 a.C.), Parmenide è nativo di Elea (Velia), una città della Magna Grecia che sorgeva nei pressi dell’attuale Paestum, in Campania. Insieme a Senofane è riconosciuto come il fondatore della scuola eleatica, alla quale appartenne anche il suo discepolo Zenone.
Parmenide scrisse un’opera in versi, probabilmente intitolata Sulla Natura, della quale rimangono alcuni frammenti del Proemio.
La scelta di affidarsi alla poesia per esporre il suo pensiero è, come in altri autori di questo periodo, indice di un legame ancora forte con la narrazione mitica propria delle religioni, mentre il titolo ci mostra che anche Parmenide ricerca un principio stabile che possa render ragione del mutamento e del divenire presente nella natura.
La testimonianza di Platone ma anche il tono oracolare e lo stile oscuro sono indizi dell’appartenenza a un ambiente aristocratico e della convinzione che la pratica della filosofia fosse una prerogativa riservata a pochi.
L’essere di Parmenide
Nella sua opera Parmenide immagina di venir condotto al cospetto di Dyke, dea della giustizia, che gli fa una rivelazione: nel cammino della conoscenza è possibile percorre la via dell’opinione (doxa) che si serve dei sensi, oppure la via della verità (aletheia) che si fonda sulla ragione.
La distinzione tra sensi e ragione, oltre a connotare tutta la storia della filosofia successiva, è di fondamentale importanza perché ci mette di fronte a due tipi di conoscenze:
- le opinioni, che variano da individuo a individuo (ad esempio: i peperoni possono essere buoni per qualcuno e cattivi per qualcun altro, in base al gusto, ai nostri sensi)
- quelle che potremmo chiamare verità logiche o verità di ragione (ad esempio: se affermo che tutti gli uomini sono mortali e che Socrate è un uomo devo per forza concludere ed essere d’accordo sul fatto che Socrate è mortale).
Per conoscere la verità su ciò che ci circonda, allora, è necessario percorrere la via della ragione, utilizzare il puro ragionamento e diffidare dei sensi che possono fornirci solo opinioni mutevoli. Ecco che allora Parmenide evita di interessarsi della natura alla quale guardavano i filosofi precedenti come Talete e Anassimandro e inizia a interrogarsi sull’essere.
Che cosa sia questo essere di Parmenide è ancora oggi oggetto di discussione, potremmo intenderlo come l’unione di tutto ciò che è, tutto ciò che esiste.
Se si esercita la ragione, se si percorre la via della verità, si deve affermare, come accade nel poema di Parmenide, che:
“È necessario il dire e il pensare che l’essere sia: infatti l’essere è; il nulla non è”
“Mai questo può venir imposto, che le cose che non sono siano: ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero”
“La stessa cosa è pensare e pensare che qualcosa è, giacché non troverai il pensare senza l’essere [l’“è”] in cui è espresso […]
Questi frammenti vengono spesso riassunti e semplificati nell’espressione scolastica:
“l’essere è e non può non essere; il non essere non è e non può essere”.
Cosa significa?
Se ci serviamo del solo ragionamento e intendiamo la parola essere in senso esistenziale (come esistere) possiamo affermare che l’essere è ciò che esiste. L’essere avrà anche un suo opposto che è, appunto, il non essere che, in quanto tale, non esiste. In questo modo abbiamo spiegato la prima parte delle due affermazioni che compongono la frase sopra ossia che l’essere è e che il non essere non è. Anche se ancora inconsapevolmente qui Parmenide sta già utilizzando il principio di identità, uno dei principi che saranno poi compiutamente esplicitati da Aristotele, in base al quale una cosa è uguale a sé stessa (A = A).
Concentriamoci ora sulla seconda parte delle due frasi che compongono la citazione sopra. Se abbiamo affermato che l’essere è ciò che esiste, sempre ricorrendo al solo ragionamento, dobbiamo necessariamente affermare anche che non può non esistere, altrimenti non sarebbe più essere. Lo stesso vale per il non essere: se il non essere è ciò che non esiste non dobbiamo per forza ammettere che non può essere, ovvero non può esistere, altrimenti non sarebbe più non essere.
Anche in questa seconda parte del ragionamento Parmenide si sta già servendo del principio di non-contraddizione, un altro dei principi logici fondamentali che sarà poi compiutamente tematizzato da Aristotele. In base al principio di non contraddizione una cosa non può essere nello stesso tempo e nello stesso rispetto uguale a sé stessa e al suo contrario (se volessimo usare la notazione logica avremmo: ¬[A V ¬A] ).
A ciò dobbiamo aggiungere un’ultima osservazione che possiamo cogliere tra le righe dei frammenti citati sopra, sempre considerando che Parmenide si serve del puro ragionamento per le sue speculazioni e non dell’osservazione della realtà esterna. Secondo il nostro filosofo l’unica verità che possiamo accogliere per certa è quella che ci presenta il ragionamento, ciò anche perché c’è una completa corrispondenza tra:
- ciò che pensiamo (il piano del pensiero),
- ciò che diciamo (il piano del linguaggio),
- come le cose sono veramente (il piano della realtà).
Ciò implica anche che il divenire e il mutamento che i sensi ci presentano sia, per Parmenide, qualcosa di puramente illusorio. Se non fosse illusorio dovremmo affermare che è inspiegabile perché ogni cambiamento è un passaggio dall’essere al non essere (ad esempio la morte).
Le caratteristiche dell’essere di Parmenide
Sempre attraverso il puro ragionamento Parmenide deduce anche le caratteristiche, o attributi, di questo essere di cui ci parla:
- l’essere è ingenerato e imperituro, perché se fosse il contrario sarebbe nato e morirebbe, quindi prima e dopo l’essere ci sarebbe stato il nulla, ossia il non essere;
- l’essere è anche eterno, per le stesse ragioni di cui sopra;
- l’essere è immobile e immutabile perché sia il movimento che il mutamento vengono considerati passaggi dall’essere al non essere (ad esempio: prima ero all’inizio del corridoio, ora sono alla fine, quindi non sono più all’inizio del corridoio; oppure: prima ero giovane, ora sono adulto, quindi non sono più giovane)
- l’essere è unico e omogeneo perché se fosse più di uno sarebbero almeno due e, se fossero due dovrebbero necessariamente distinguersi ed essere separati da qualcosa di diverso da loro, ossia da qualcosa che non è essere e quindi è non essere;
- l’essere è anche finito perché, come già abbiamo notato a proposito di Anassimandro e di Pitagora, per i greci finito è sinonimo di de-finito, de-limitato, compiuto e quindi perfetto mentre, al contrario, l’infinito è un concetto negativo perché sinonimo di indefinito e illimitato.
- l’essere, infine, è anche sferico perché la sfera è il solido che meglio lo rappresenta e che meglio riassume le sue caratteristiche: è un solido finito, limitato, compiuto perché ha un perimetro, ma tale perimetro o superficie è, allo stesso tempo, infinitamente percorribile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Parmenide: vita e pensiero del filosofo dell’essere
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