Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone
- Autore: Simone Lenzi
- Genere: Musica
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Marsilio
- Anno di pubblicazione: 2017
Comincio con un assunto di Simone Lenzi in “Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone” (Marsilio, 2017) che condivido. La canzone è frutto di un sinolo inscindibile di musica e parole. Si tratta di un concetto basico, che Simone Lenzi fa bene a porre a fondamento del suo saggio.
Inutile girarci attorno, giovandosi di forzature: il testo di una canzone è altro dal testo poetico. Lo è in quanto inscindibile dal suo coefficiente musicale. Sotto un aspetto di stretta teoria ritengo sottili altre due tesi della disamina lenziana, queste:
“Tutte le canzoni sono canzoni d’amore (anche quelle che non lo sono); tutte le canzoni sono canzoni politiche (anche quelle che non si impegnano)”.
Verissimo: fatto salvo il diritto legittimo di discernere l’alto dal basso (sono parole mie), che un conto sono le canzoni d’amore di Paolo Conte e un altro quelle di Albano, si parva licet. Così Simone Lenzi, a pagina 134 ancora sulla questione:
“Se continuiamo a ripetere che tutte le canzoni sono canzoni d’amore, nell’erotismo dell’incarnazione della voce (ma anche nella fattispecie Conte batte Albano 10 a 0, ndr), dobbiamo insistere anche sul fatto che tutte le canzoni (…) sono canzoni politiche, nel senso che nascono dal sapere condiviso di tutta una comunità e a questa comunità vogliono tornare. Tutte le canzoni sono politiche, anche quelle che non si impegnano, perché dunque presuppongono una dimensione pubblica e sociale che non è semplicemente destinataria finale della canzone, ma è parte coessenziale e originaria del processo compositivo stesso”.
Verissimo anche questo, purché non si tralasci il fatto che mentre i Cugini di Campagna veicolavano la loro “dimensione pubblica” a forza di Promessa d’autunno e Anima mia, Pierangelo Bertoli lo faceva cantando a Muso duro e Rosso colore. Non sto contraddicendo Simone Lenzi, faccio mia, anzi, la sua tesi: c’era negli anni Settanta l’Italia democristiana e spensierata (alla faccia dei golpe mancati e delle P38) dalla quale attingevano e per i quali cantavano I Cugini di campagna, e c’era l’Italia più impegnata dalla quale attingeva e per la quale cantava Pierangelo Bertoli
“Che la qualità delle canzoni a cui prestiamo ascolto possa diventare persino una sorta di termometro per misurare lo stato di salute della democrazia in cui viviamo è dunque un’affermazione che lascio come suggestione interpretativa al lettore, ma che ritengo possa avere una qualche fondatezza”. (continua l’autore, nella stessa pagina).
Che dire, in ultimo, aggiungendo qualche nota sul libro nel suo insieme? Che “Per il verso giusto” si avvale dell’imprimatur introduttivo del Baustelle Francesco Bianconi. Che si tratta di un saggio equanime, intelligente, scorrevole, democratico. Accessibile cioè ai lettori adusi a teoria, prassi e retroscena della canzone italiana, e a quelli più digiuni di questioni tecnico-speculative. Come dar torto a questi’ultimi, del resto? Trattasi in fondo solo di canzonette, diceva Enzo Jannacci. Uno che di canzonette - micidiali come uppercut però – ne ha scritte a vagonate.
Per il verso giusto. Piccola anatomia della canzone
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