Quando Roma era un paradiso
- Autore: Stefano Malatesta
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Skira
- Anno di pubblicazione: 2015
Nel volume “Quando Roma era un paradiso” (Skira 2015) di Stefano Malatesta, scrittore e giornalista nato a Roma nel 1940, il quale da più di trent’anni scrive racconti di viaggio, articoli d’arte e di letteratura per Repubblica, rievoca la città della sua infanzia, adolescenza e prima giovinezza.
“Era chiaro a tutti che nel dopoguerra la città che mostrava più vivacità e che si presentava più carica di aspettative e di speranze, e che stimolava più curiosità intellettuali, era la capitale italiana.”
Alla fine degli anni Quaranta del XX Secolo, ecco Roma com’era nel ricordo di Malatesta, allora giovanissimo ma già acuto osservatore, Urbe liberata finalmente dal fascismo, tornata più bella e più grande di prima, non ancora toccata dalla speculazione edilizia. Una Roma le cui strade millenarie non avevano più visto marciare un soldato di Hitler dal 4 giugno del 1944 quando gli americani al comando del generale Clark erano entrati in città, liberandola. Nel secondo dopoguerra i turisti che cominciavano a tornare a visitare la Città Eterna, erano ammirati e perplessi dalla velocità con la quale gran parte degli edifici danneggiati erano stati restaurati e “le rovine occultate”, anche se le ricostruzioni, viste da vicino, sembravano discendere direttamente dal talento scenografico degli italiani, “imbattibili nel sembrare più che nell’essere”. Chissà se anche il piccolo Stefano indossava, per superare il freddo di quegli inverni, gli eleganti cappotti, comodi e caldi, che prima erano coperte militari, distribuite al tempo dell’arrivo degli americani, che erano state abilmente trasformate da mani d’oro sartoriali. Gli stranieri inoltre rimanevano colpiti da quel lato particolare del carattere dei romani, cioè quel cinismo di chi è indifferente a tutto, perché è abituato alla grandezza di Roma e non si meraviglia mai di nulla, meravigliosamente impersonato al cinema da Aldo Fabrizi. Ma c’era un altro aspetto di Roma che affascinava le nuove generazioni, italiche e oltre frontiera, era il cinema neorealista, nato nell’estate del ’45 con Roma città aperta di Roberto Rossellini, giovane regista romano dandy, elegante e con un tocco di vanità, il quale con la sua pellicola aveva rivoluzionato il modo di fare cinema. Se anche la pittura a Roma in quel periodo stava conoscendo una fase entusiasmante, Via Margutta e i suoi dintorni erano diventati la sede preferita di una serie di studi occupati da pittori e scultori, a scoprire Roma negli anni Cinquanta erano stati gli uomini del cinema. In via Veneto si poteva incontrare al bar dell’Hotel Excelsior, dove era solito sostare Orson Welles, “the genius”, che si era appena separato dalla moglie, una “certa” Rita Hayworth. Ma la vera invasione da parte degli americani, senza dimenticare che a Roma già vivevano Tennessee Williams, Gore Vidal e Truman Capote, era avvenuta nella tarda estate del 1950, con lo sbarco delle maestranze cinematografiche a Cinecittà. Sì, perché
“in meno di sei mesi dovevano produrre il film più colossale mai realizzato dall’industria cinematografica: Quo vadis? tratto dall’omonimo libro di Henryk Sienkiewicz.”
L’autore con ironia, eleganza e disincanto, trasferisce su carta le sue impressioni giovanili di cronista, quando per le strade, nelle piazze e dentro le trattorie di Roma l’atmosfera era piena di entusiasmo, voglia di creare un mondo migliore nel quale vivere, protagonista la nostra città mai come allora capace di stimolare curiosità intellettuali.
Formidabili quegli anni, dove appare quanto mai vivido nella memoria del bravo Malatesta il ricordo di Ostia, nella quale i frequentatori della spiaggia che davano tono alla cittadina balneare erano i cinematografari. Infatti, se è vero che
“ogni città ha sempre avuto un’arte a fare da locomotiva, che tirava tutte le altre come vagoni,”
a Roma,
“nei primi dieci anni del dopoguerra, è stato il cinema a fare da locomotiva.”
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