“Quel che Voltaire si è perso” di Leonardo Sciascia è un pregevole racconto socio-antropologico dal taglio illuministico sulla festa religiosa della Madonna di Racalmuto. Riferendosi a “Pampilonia” che, nel dialetto dei Regalpetresi significa “confusione infernale chiassoso panico smisurata allegria”, Leonardo Sciascia ne aveva parlato nell’opera Le Parrocchie di Regalpetra, cogliendo i suggestivi aspetti socio-antropologici della festa religiosa del paese.
“Esplode insonne e violenta”, aveva scritto nel capitolo “I parroci e l’arciprete”, per celebrare il ritrovamento della statua della Madonna, fatto ritenuto miracoloso e tramandato da un antico cronista.
Sul fatto ritenuto miracoloso, Sciascia lasciava la parola al cronista.
Ecco la sintesi:
Nella città di Castronovo v’era il nobile Eugenio Gioeni, corretto d’ipocondria. Gli ordinarono li medici di farsi un giro per divertirsi e di superare questo filato ipocondrico. Infatti si chiamò alcuni parenti suoi di Palermo e di Castrogiovanni, si unirono con la servitù in numero di settanta, si noleggiarono un bastimento, passarono a girare l’Africa, e passarono dalla Libia, regno di Barca. Mentre riposavano in un poggetto sotto una pietra, videro in detta pietra una forma di porta, e avendola aperta, trovarono un’immagine della Vergine SS. col bambino nella mano sinistra di marmo bianco.
Il Gioeni, tornato a Castronovo, si porta dietro la statua, adagiata su un carro trainato da buoi. Ma a Regalpetra gli animali s’inginocchiarono e non vollero riprendere il cammino verso Castronovo:
ed il carro con la suddetta immagine si sprofondò (…) Vedendo questo portento Eugenio, disse al popolo e al conte di Regalpetra che la lasciava in detta terra.
Quanto al giorno della festa, lo scrittore racconta:
Poiché la chiesa è alta sul paese, in cima a una lunga gradinata, è tradizione che l’uomo a cavallo salga d’impeto la gradinata, fin dentro la chiesa (…). Il mulo dapprima resiste, poi i colpi che gli piovono da ogni parte, le voci e il suono delle trombe e dei tamburi, lo costringono: con occhio stravolto si avventa a salire, soltanto dentro la chiesa silenziosa si arresta, improvvisamente sorpreso da quel silenzio e fremente.
Sciascia, in seguito, riprende l’argomento e lo riscrive per farne un racconto, più ricco di dettagli: Quel che Voltaire si è perso, titolo che richiama al conte philosophique: uno dei sette racconti che, in fascicoli, faceva stampare intitolandolo “Gli amici della Noce”, corredati da pregevoli incisioni (dal marzo del 1978 al maggio 1989, quasi uno all’anno).
E meritevole indubbiamente è stata l’iniziativa della Fondazione Sciascia di Racalmuto che nel dicembre 2022 ne ha curato la ristampa.
Essendo fuori commercio, vale la pena soffermarsi sulla seconda parte della narrazione in cui l’autore scrive:
Ma faticosamente costruita in più secoli, e dandole forma definitiva, nel 1856 un padre Bonaventura Caruselli, autore di un libretto intitolato Maria Vergine del Monte in Recalmuto, la tradizione proprio da un ecclesiastico è stata oggi smontata. E non che ci volesse molto: la statua è indubbiamente di origine gaginiana e c’è, nella tradizione, un sol punto veridico che però è stato sistematicamente rimosso: l’affermazione in una strofetta popolare, che la statua proveniva da Trapani: “di Trapani affaccia Maria di Gesu” (non di Gesù: di Gesu, come una volta si diceva anche per esclamare stupore o raccapriccio). Marmo trapanese, officina trapanese: ed è facile pensare che un del Carretto l’abbia commissionata per devozione propria e per rallegrarne i vassalli, che poche occasioni avevano di rallegrarsi sotto il loro mero e misto imperio.
“Quel che Voltaire si è perso”: analisi e commento del racconto
La Sicilia delle imposture religiose, dunque: di leggende costruite dalla Chiesa e ora, ironia della sorte, demolite da un gesuita racalmutese, padre Gerolamo Morreale, apostolo della verità storica.
Ecco allora cosa si è perso Voltaire: la distruzione di un mito per secoli tramandato. Quante cose nel teatro del mondo per recitare la vita sono state inventate in buona o in cattiva fede.
Per fortuna, avanza l’esercizio della ragione che come il ferro va alla calamita. Anche se reca la sofferenza del taglio, lo scrittore demitizza la credulità, taglia nettamente gli inganni e l’ingannevole, cercando di fare chiarezza su ciò che falsamente è stato costruito. Gustosamente tagliente l’ironia del narrante: dopo l’arbitraria costruzione dello spettacolo del leggendario, può trarre la conclusiva considerazione sul distacco dal non senso con una visione illuministica, pedagogica e sarcastica in riferimento alla Chiesa cattolica che ha eletto e destituito gli stessi santi, facendoli scendere dagli altari:
… questo nuovo corso Voltaire proprio se lo è perso. Chissà quanto ne sarebbe stato contento, che divertitissime e divertenti pagine avrebbe scritto: su san Gennaro, su santa Filomena, su tutti quei santi destituiti di santità mancando, come si dice in burocrazia per la corresponsioni di pensioni, di un certificato di esistenza in vita, quella loro vita che i fedeli per secoli hanno creduto conclusa nel martirio o nell’ascesi. Forse anche la vicenda della Madonna del Monte lo avrebbe interessato: dei racalmutesi cui vien sottratta la credenza in quell’antico miracolo, primo anello di una catena di miracoli che ho visto allungarsi fino agli anni della mia infanzia.
L’ironia si stempera in dimensioni più aperte quando lo scrittore s’accosta al sentire comune: dell’invenzione leggendaria rimane la festa; anche se nessuno più crede alla leggenda, anche se non ci sono gonzi pronti a credere a quello che fu detto dagli antenati, la festa, che si svolge per cinque giorni nella seconda settimana di luglio c’è ancora: “una rutilante, fragorosa, insonne festa”.
Viene in mente a questo punto il bel saggio Feste religiose in Sicilia, già pubblicato nel 1965 a cura dell’editore Leonardo Da Vinci di Bari e accompagnato da immagini che parlano da sé: quelle del fotografo di Bagheria Ferdinando Scianna.
Si trova pure nel volume La corda pazza, un’opera scritta per riconoscere e rivelare notevoli aspetti sulla sicilianità.
Intoccabile il protocollo della tradizione religiosa, tant’è che Sciascia muove dal “più grande errore di governo” compiuto nel 1783 dal viceré Domenico Caracciolo: ridurre da cinque a tre i cinque giorni di festa “dispendiosa” che la città di Palermo celebrava in onore di santa Rosalia.
Questi, che da buon riformatore era riuscito ad annientare il Tribunale dell’Inquisizione e si accingeva a scardinare i privilegi feudali, appena osò toccare i fasti di santa Rosalia, immediatamente perse il favore di tutti i ceti popolari mentre i nobili immediatamente ne approfittarono per assumere il patrocinio della massiccia reazione.
La festa, insomma, salva dallo sfacelo delle cose, esprime la comunità per quanto assurde e incomprensibili le origini che se ne sono avute. Il saggio non può che concludere identificandone il significato complessivo.
Si chiede Sciascia:
“Che cosa è una festa religiosa in Sicilia”.
Ed ecco la sua risposta: manifesta essa una “esplosione esistenziale”: l’esplosione dell’ ”es” collettivo per ritrovarsi il siciliano, uscendo dalla condizione di “uomo solo”, parte di un ceto, di una classe sociale, di una città.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Quel che Voltaire si è perso” di Leonardo Sciascia: riassunto e analisi del racconto
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