Leonardo Sciascia trascorre la villeggiatura estiva nella sua casa di campagna in contrada Noce, territorio di Racalmuto in provincia di Agrigento a una ventina di chilometri, in linea d’aria, dal mare di Porto Empedocle:
e se ne scorge la linea, di un azzurro che dà nel viola, nelle mattinate chiare; e a sera, quando non c’è la luna, le lampare sembrano lontane lucciole, sperse nella vuota e grande notte.
Lì vanno a trovarlo gli amici, tra cui Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo, Matteo Collura, Mario La Cava, e tanti altri.
Del suo legame con il luogo, in cui egli si trova a proprio agio per una dilettevole sosta di contemplazione del paesaggio, di studio, di lettura e scrittura, resta uno scritto che riassume l’amore per la propria terra.
Contrada Noce: analisi del racconto di Leonardo Sciascia
Si tratta del racconto Contrada Noce, pubblicato dal giornale di Racalmuto Malgrado Tutto nel 1984 (numero agosto-settembre, accompagnato dall’incisione Giancarlo Cazzaniga).
Potremmo dirlo un vero e proprio inno gioioso alla vita:
… E sentiamo così di essere nel luogo per noi più vicino alla vita; alla idea, alla coscienza, al gusto della vita. Un luogo in cui l’amicizia, gli affetti, la bellezza, la morte (anche la morte) hanno un senso. Un luogo in cui ha senso il cibo (il pane che esce odoroso dal forno, il frutto staccato dell’albero, il vino che sgorga allegro dalla botte), il lavoro, il riposo.
C’è da dire che sulla contrada già esisteva una raccolta di racconti, che, oltre a questo di Sciascia, comprendeva scritti a firma di celebri intellettuali e scrittori siciliani. L’iniziativa, voluta dal celebre scrittore recalmutese, venne accolta dal palermitano Franco Sciardelli che dapprima li stampò nella bottega milanese di via Ciovasso: sette fascicoli periodici usciti in dieci anni tra il ‘78 e l’89 e ora ripubblicati con lo stesso editore, a cura della Fondazione Sciascia di Racalmuto.
Il titolo è Gli amici della noce e il libriccino, fuori commercio (quindi di rarità bibliografica), comprende quei sette racconti accompagnati da una illustrazione d’autore.
Nella sua “Cronachetta”, così pare di poterlo definire, Leonardo Sciascia esprime i suoi vissuti sul paesaggio rurale utilizzando il tempo presente e tutto è modulato sulle note alte del sentimento, su aspetti di coinvolgente tensione emotiva.
E’ l’io autobiografico a fare da protagonista in un percorso di analisi accurata di conoscenza e di memoria. Le sue sono delicate pennellate sulla distensione dell’animo, mentre riflessioni e introspezioni si traducono nell’eleganza della visività pittorica che rende concreto il mito d’origine per un esito che è la sua favola in un paesaggio di colline rocciose sparse di mandorli e di olivi, di vigne, di sommacco:
qualche pino o cipresso in cima, a lato delle case bianche di gesso o gialle di tufo arenario; fitte siepi di ficodindia da ogni parte.
Già l’incipit reca il fascino del raccontare:
Le mie più belle vacanze sono quelle che passo nella campagna del mio paese ogni anno, da quando sono nato. Mi ci portarono la prima volta che avevo sette mesi, mi dicono. Tra quegli alberi, tra quei siepi di ficodindia in quella casa scialbata a calce e dalle travature scoperte, ho cominciato a parlare e, più tardi a scrivere. E tutti i miei libri sono stati scritti in quel luogo, ma sono come connaturati ad esso, al paesaggio, alla gente, alle memorie, agli affetti.
La casa di contrada Noce, dunque: il luogo dell’anima, dell’iniziazione sentimentale e culturale, un rifugio privilegiato di quiete e anche di ozio.
Affascinato dall’origine del toponimo, lo scrittore annota:
Pare che il nome, Noce, le sia venuto dall’intensa coltivazione di alberi di noce che quasi del tutto scomparve alla fine del secolo scorso; e la sua fortuna come luogo di villeggiatura dal fatto che una grande famiglia vi abbia costruito alla fine del settecento, quando venne in moda la fuga dalla città nell’estate, una casa grande come un castello, circondata da un giardino pieno di rare piante, di ombrosi recessi, di fontane, di grotte artificiali dalle volte a stalattiti e dalle pareti rivestite di quei cristalli di zolfo e di salgemma che i minatori chiamano brillanti.
Quanto allo sfarzo di quella famiglia, si affida alle voci che si tramandarono per farne poi presente la decadenza. D’allora i notabili avevano scelto il luogo a residenza estiva, costruendo case “sgraziate” e “pretenziose” rispetto ad altre casette alla buona con un piccolo appezzamento di terra.
Una contrada, vien detto, lontana dalle zolfare cui non giungeva l’acre odore dello zolfo nemmeno nelle giornate di scirocco: salubre rispetto alle abitazioni del paese e rigogliosa anche se non ricca di acque.
C’è in tutto questo la peregrinazione della coscienza; tornano gli archetipi della genuinità e anche dell’idillio, dettato dal bisogno di abitare la propria casa, cioè il luogo dove stare con se stessi, tanto che Sciascia sente di dire che alla Noce sono rimasti gli indigeni, quelli che si può dire ci siamo nati:
e, tranne i contadini, quei pochi che ormai siamo rimasti, siamo tutti persone che non risiedono in paese da anni.
Non mancano accenni alla ricostruzione storica: la presenza dell’acqua, individuata da un monaco rabdomante, ha consentito il diffondersi delle colture ortalizie, della vegetazione, del verde. A questo punto, Sciascia si abbandona a istanti di intimo godimento con lo sguardo rivolto all’arrivo della sera:
aspettati e sospirati per tutta l’arsa giornata: momenti in cui la luce sembra sorgere da altre cose – dagli alberi, dalle pietre, dall’acqua – e lentamente riassorbita in esse. Allora il paesaggio sembra sospendere al di fuori del tempo, quasi avesse trovato la forma e l’assolutezza dell’arte. Dal punto in cui ho l’abitudine di sedere ogni sera, alla stessa ora vedo un paesaggio in tutto simile a quello che fa da sfondo a “L’Amor sacro e l’Amor profano” del Tiziano: e la sera trascorre in esso come una delle tizianesche donne serene e opulente. Poi di colpo, come un ventaglio, quella visione si chiude ed è la notte...
L’espressione è affidata ai suoni di parole che danno luce; ogni frase è musicale e il senso viene espresso dall’insieme del brano.
Nella luce si svela l’onirico del dormiveglia che si orchestra mediante un’ariosa ed esistenziale essenzialità. Sono soffici le luci rivelatrici di un tempo senzatempo: quello della bellezza dell’arte; sono luci materiche, che in accordo con i suoni, fanno pensare a Chagall: volano dalle cose e ritornano in esse: dunque, consumate nel sogno, ma non estinte. Ed è la sera ad essere percepita nella sua femminile sembianza.
Sciascia evoca l’immagine della “Noce” di Racalmuto, associandolo al paesaggio nordico di Tiziano coi suoi colori sfumati, rispetto a quelli accesi della calura estiva siciliana. Insolito sicuramente l’accostamento, ma è di sera che viene evidenziato quando le cose smarriscono la loro netta fisionomia.
Matteo Collura, che nel suo Alfabeto Sciascia ha dedicato il lemma “Noce”, commenta:
Quanto al paesaggio che la sera quietamente si offriva allo sguardo dello scrittore, esso è difficilmente accostabile a quello – nordico, lacustre – che fa da sfondo al quadro di Tiziano; tuttavia, è nell’atmosfera di fine giornata, di ritorno a casa in un sereno tramonto agreste, che bisogna ricercare – ammesso sia necessario – le somiglianze.
La luce della sera riporta il narrante al tempo del lume a petrolio o ad acetilene che veniva acceso all’ora di cena e la casa di campagna riappare ora dal passato con i segni dello stare insieme che incantano, diventando un richiamo di conviviale dialogo:
ce ne stiamo fuori allo scuro o al chiaro di luna, seduti in cerchio a far conversazione: la famiglia, gli amici. Di tanto in tanto ci giunge, come intriso dell’esistenza della notte, il canto di un contadino: uno di quei canti lenti e accorati, tenuti su poche note, pieni di interni echi e rifrazioni, che dicono amore e sdegno.
Una rete di luci quel luogo, e gli si presenta coi riti della chiacchierata sotto le stelle. E la gran luce in fondo è il mistero dell’invenzione letteraria aperta alle suggestioni della vita, tra cui il gusto del cibo:
Un luogo in cui ha senso il cibo (il pane odoroso che esce dal forno, il frutto staccato dall’albero, il vino che sgorga allegro dalla botte, il lavoro, il riposo.
Viaggio, in sintesi, del ritorno e dell’approdo a Itaca: nella Sicilia tra la campagna e il mare.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Contrada Noce”: il luogo dell’anima di Leonardo Sciascia
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