Russia incatenata. Viaggio fra le prigioni della letteratura e della realtà
- Autore: Francesca Legittimo
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2023
Il libro della slavista Francesca Legittimo, Russia incatenata. Viaggio fra le prigioni della letteratura e della realtà (Intra Edizioni, 2023) nasce dalla consapevolezza del ruolo enorme che ha svolto (e le cose, in tempo di guerra, non sembrano cambiate) la prigione nella realtà e nell’immaginario del mondo russo.
Una subcultura carceraria, persino una sua koiné ha, almeno dagli anni Trenta del secolo scorso, pian piano espanso le sue maglie dentro la stessa società russa, fino ai suoi vertici. Legittimo sostiene senza troppe circonvoluzioni che la probabilità di finire in carcere da quelle parti sia (stata) sensibilmente più alta che altrove e si spinge a dire che senza conoscere il mondo carcerario russo non si comprende molto di quel paese - parere tutt’altro che peregrino visto che fu anche di non pochi fra i suoi massimi rappresentanti culturali, a partire da Dostoevskij.
E quanto sia compenetrata la prigionia nell’immaginario russo lo testimoniano gli esordi letterari. Contro la vulgata che vede ne Il cappotto di Gogol il vero incipit della letteratura russa, l’autrice ritiene che l’inizio sia altrove – no, nemmeno in Puskin come ritengono altri, ma nel diario dell’arciprete secentesco Avvakum (in Italia lo ha pubblicato molti anni fa Adelphi con il titolo Vita dell’arciprete Avvakum scritta da lui stesso) finito in carcere e poi al rogo per essersi opposto alle riforme religiose del tempo.
Lì per la studiosa si affaccia una vera lingua letteraria russa, nonché quella grande capacità di introspezione che poi sarà una cifra peculiare della letteratura a venire dalle parti di Mosca e Pietroburgo. Così come appunto il carcere, destinato a diventarne uno dei topoi fondamentali, al punto che non pochi scrittori russi iniziano a scrivere proprio nel carcere.
O lì trovano l’alfa e l’omega delle loro visioni. Dostoevskij, dopo gli anni rivoluzionari, in Siberia scopre il Vangelo e l’autentica anima russa.
Dall’esperienza a sua detta decisiva nella colonia penale in cui finisce dopo aver scampato all’ultimo istante - nemmeno un film - la pena capitale, l’autore di Delitto e Castigo scopre il sua peculiare cammino, di uomo e di scrittore; ne lascia traccia nelle Memorie dalla casa dei morti.
Il carcere è il luogo in cui il lavoro di indagine dell’animo umano – lavoro che forse nessun altro fra gli scrittori ha saputo compiere con la stessa intensità (forse Proust? Shakespeare? lo stesso Tolstoj? ) – nel carcere non puoi mentire, l’uomo è nudo. Corpo e mente sono schiacciati in una regione infera, e Dostoevskij, l’uomo del sottosuolo, come Avvakum, s’intrude nei territori più oscuri della psiche: così la prigionia si fa anche metafora delle gabbie mentali in cui scrittori o i loro personaggi sono imprigionati. La contiguità con la morte fa il resto.
Diverso l’approccio, razionale, lucido, del medico Anton Cechov che invece sceglie di compiere un lunghissimo viaggio fino all’ isola di Sachalin, al confine con il Giappone, per conoscere le condizioni di vita – di sopravvivenza - dei prigionieri. L’approccio scientifico che era proprio ai suoi studi lo obbliga a una postura metodica: fa un censimento della popolazione, la osserva, la studia, per capire meglio l’umano, la sofferenza e gli aspetti estremi della follia – in ultima analisi, l’inutilità del carcere. Che a Dostoevskij come a Solženicyn era apparso una benedizione: nonostante gli orrori di quello stato nello stato che è l’Arcipelago Gulag, il suo protagonista crede di avervi trovato la vera vita, l’accettazione del dolore e del martirio.
È evidentemente la fede la base di quella prospettiva - se l’uomo crede in dio, dice Solženicyn, resta uomo anche nel gulag.
Prospettiva tutt’altro che condivisibile per un ex troskista come Salamov: al contrario, nella Kolyma in cui regnavano fame, botte da orbi e morte non può che toccare con mano ustionata il male quasi metafisico della barbarie.
Il gulag getta l’uomo nel nulla. Lo pensarono anche molti suoi amici bolscevichi, in un primo momento, fiduciosi nelle “magnifiche sorti e progressive”.
Come sempre, fra teorie palingenetiche e realtà effettuale di mezzo sarebbe passato il mare – con l’aggravante che il potere di controllo della prigionia, con il corollario di umiliazioni e violenze che conosciamo, nel socialismo reale siberiano si esercitò con una crudeltà difficilmente pareggiabile.
L’analisi di questo splendido saggio prosegue attraverso vari casi, dalla lettura di Resurrezione, non il massimo capolavoro tolstojano, sintomo dello sconcerto e della rabbia del suo gigantesco autore verso il pessimo sistema giudiziario russo, corrotto, inumano, all’esperienza di guardia carceraria di Dovlatov che approda nel regime speciale dalla “Leningrado underground” degli anni sessanta e nello spettacolo osceno della prigionia vede l’assurda comicità del mondo.
Ancora, Josef Brodskij, finito in carcere prima dell’esilio, perché poeta cioè parassita, trova però nella solitudine e nel cronotopo impossibile della prigionia (spazio infimo e tempo illimitato) riflessioni acute, scopre la letteratura anglosassone e un’accesa creatività.
Non mancano passaggi più vicini a noi, sul supervitalista Limonov, che vede nel disubbidiente carcerato un eroe, o sul putiniano Prilepin, combattente in Ucraina, bravo scrittore e discutibilissimo ideologo, che vede nella prigione una sorta di fato avverso provocato dal parricidio simbolico della cultura russa che ha ucciso dio.
Dai libri alla società russa, il saggio si chiude con uno sguardo sull’oggi.
Benché quella carceraria sia nata in un certo senso come controcultura - fra tatuaggi (con una semiotica molto interessante) e riti d’iniziazione - in essa si sono replicate, e hanno influenzato a loro volta dinamiche tipiche di una struttura gerarchica molto dura, tipica del mondo russo.
Se le canzoni dei (o sui) reclusi, indulgenti verso chi ha sbagliato, hanno invaso anche l’esterno della società russa, forse non stupisce che l’autocrate da troppo tempo al comando si esprime spesso con lo stesso gergo della malavita.
Il libro è davvero imperdiblie.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Russia incatenata. Viaggio fra le prigioni della letteratura e della realtà
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