Scalpi e tomahawk
- Autore: Frederick Drimmer
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2023
Il pellerossa si piega sul nemico abbattuto, afferra con una mano la chioma e con il coltello nell’altra incide la pelle intorno alla testa della vittima. Uno strappo secco e lo scalpo viene via, “come si scuoia una pecora macellata”. Lo scotennamento era una pratica brutale, ma non sempre uccideva chi lo subiva, precisa Frederick Drimmer, nell’introduzione di uno dei suoi libri sugli indiani del Nord America, Scalps and tomahawks, pubblicato negli Stati Uniti nel 1961. In questi primni mesi del 2023, ad oltre due decenni della morte dello scrittore newyorchese, le edizioni italiane Oaks di Sesto San Giovanni hanno riproposto quel suo libro, nella traduzione di Sam Schlumper e con il titolo testuale Scalpi e tomahawk (263 pagine).
Nato a Brooklyn nel 1916 e morto nel 2000, Frederick Drimmer è noto per le sue ricerche sulle popolazioni native americane e sulle tematiche del macabro e del bizzarro. Tra i suoi libri, Very special people, su alcuni soggetti nati deformi, freak ed altri fenomeni da baraccone e The Elephant Man, nel 1985, in cui ha raccontato la vicenda di Joseph Merrick, l’inglese del XIX secolo affetto dalla sindrome di Proteo, una patologia genetica che durante l’infanzia gli aveva provocato l’ispessimento abnorme della pelle in varie parti del corpo ed anche della testa e del cranio. Da questa storia il regista David Lynch ha tratto un famoso film biografico nel 1980.
L’attenzione ai pellirosse e le loro tradizioni rientra quindi nel suo interesse per lo spettacolarmente diverso.
Per gli indiani, la capigliatura era strettamente legata all’uomo al quale apparteneva. Strappare il cuoio capelluto del nemico e farne un trofeo significava appropriarsi della virilità dell’avversario, sopraffatto in combattimento.
I nativi americani uccidevano molto, torturavano i prigionieri in modo crudele, praticavano in misura minore il cannibalismo, ma adottavano i bianchi molto più frequentemente di quanto si pensi e non violentavano le donne. Sono elementi che si possono dedurre agevolmente dai cinque racconti di uomini, ragazzi e una giovane donna, catturati e vissuti presso alcune tribù tra il 1750 e il 1860, proposti in questo libro da Drimmer. Faceva osservare che ognuno è un romanzo condensato sulla frontiera.
Per quanto inclini alla violenza, gli indiani non vi figurano come dei “selvaggi”, nonostante l’insistenza del titolo sullo scotennamento e sull’arma impietosa. Da esperto e uomo senza preconcetti, l’autore indica preliminarmente e sviluppa nelle cinque testimonianze tanti aspetti complessi e profondi della loro civiltà, legata ai cicli della natura e ai territori, ricca di aspetti che fanno dei pellirosse degli asceti rispetto alla rozza brutalità dei bianchi. Coloni, mercanti, funzionari e militari non si fecero scrupolo di massacrarli, sopraffarli, ridurli nelle riserve, ignorando i trattati o riscrivendoli a loro vantaggio, alla ricerca spasmodica di terre coltivabili nel West, ad Ovest.
Ognuno degli ex prigionieri autori dei racconti selezionati da Drimmer tra diversi altri, testimonia quanto osservato di persona. Una metà di queste relazioni venne scritta di proprio pugno, altri raccontarono le loro esperienze a gente che “sapeva tenere la penna in mano”.
Non manca qualche esagerazione o nota romanzesca, ma sempre in un contesto generale di autenticità. Almeno un paio sfuggirono miracolosamente al rogo che li doveva bruciare vivi. Altri erano talmente feriti da essere stati dati per morti durante l’assalto degli indiani. Uno solo venne riscattato.
La maggioranza degli altri trovò moglie nel gruppo, fu adottato o quand’era sul punto d’esserlo riconquistò la libertà.
Gli indiani praticavano l’adozione, per motivi utilitaristici. Le tribù erano sempre in lotta tra loro e subivano perdite, inoltre fame e malattie riducevano numericamente le compagini. Una soluzione era adottare nuovi individui e quando comparvero i “visi pallidi” toccò anche ad alcuni di loro.
Il fatto che non abbiano mai usato violenza alle prigioniere sorprese i i lettori dei primi racconti di cattura. Non attentavano alla castità di qualsiasi donna bianca. Nulla di offensivo o indecente, nessuna “impudica proposta”.
Non una molestia, insistevano le testimonianze, per quanto fossero rimaste “fra quei leoni ruggenti, orsi inferociti senza timor di Dio né del diavolo” di notte e di giorno, da sole e in compagnia, dormendo in promiscuità.
Eppure, il tomahawk risparmiò soltanto in minima parte i nemici. Non c’è chi non ricordi compagni di viaggio e di lavoro uccisi dagli indiani. Per molti degli americani lungo la frontiera, il pericolo di morire trucidati da aggressori seminudi era tremendamente costante.
Quanto alla crudeltà, gli indiani hanno massacrato dei bianchi e i bianchi hanno massacrato degli indiani. Un calcolo attendibile del numero complessivo dei visi pallidi uccisi non si può minimente fare, ma per Frederick dev’essere stato a dir poco sbalorditivo. Viceversa, si sa bene che la strage di nativi ha assunto le proporzioni di una mattanza interminabile, fino a Wounded Knee 1890 ed oltre.
Si calcola che nel 1492 i nativi a nord del futuro Messico fossero oltre 900mila, nel 1870 appena 300mila.
I torti che gli indiani hanno subito non sono certo pochi, riconosceva oggettivamente lo scrittore. Per questo, non facevano distinzione tra i bianchi, anche nel caso di un misfatto commesso da uno solo. Quando gliene venivano offerte l’occasione e l’opportunità, esercitavano la vendetta fino “al colmo estremo della misura”.
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