La trama qui è relativa come un refolo di vento. Ciò che più conta in Solo di August Strindberg (Carbonio, 2021, traduzione e prefazione di Franco Perrelli) è ciò che sta sotto alla trama, ciò che la trama veicola. In primo luogo la capacità di Strindberg di governare i più sottili moti interiori, di ispessire e trascendere, al contempo, sfumature e apparenze. Quanto a finezza contenutistica, lo svedese August Strindberg (Stoccolma 1849-1912) se la gioca alla pari con Henrik Ibsen e Ingmar Bergman nel cinema e nel teatro. Dev’essere l’aria che si respira a quelle latitudini, ma pochi tengono testa agli scandinavi quanto a magnetismo filosofico. E d’altro canto Strindberg non lo scopriamo certo adesso, e meno che mai lo scopro io. Uno scrittore che inscena la propria comédie humaine sul ciglio spaesante della metafisica è capace di misurarsi con tragedia e senso del ridicolo sociali: come dire l’abisso ontologico e le effimere vertigini.
Solo di August Strindberg
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Un uomo di circa cinquant’anni torna a Stoccolma dopo diverso tempo. È solo e, come dire, spossato dalla pochezza ipocrita dei rapporti umani: chiamarsi fuori da ogni stretto contatto sociale gli appare così come la sola scelta da fare. Da solo passeggia. Riflette. Immagina. Contempla i segnali del tempo transitare sul volto degli uomini e della natura. Libri e silenzio gli tengono compagnia, il buio e il sonno lo distolgono dalle sue cogitazioni autistiche, iniziandolo al nulla.
“Questa è infine la solitudine: avvolgersi nella seta dell’anima, farsi crisalide e attendere la metamorfosi, che non può mancare. Si vive intanto delle proprie esperienze e, telepaticamente, si vive la vita altrui. La morte e la resurrezione, una nuova educazione per un nuovo ignoto. Finalmente, possiedi solo te stesso. i pensieri altrui non controllano più i miei; opinioni, capricci altrui non m’angustiano più […] se rifletto sulla vita sociale […] non posso ora giudicarla altro che una scuola di vizi. Se rechi in te un senso bellezza, essere sempre costretto a vedere bruttezza è una vera tortura che ti spinge ingannevolmente a ritenerti un martire”. (p. 56)
Il terzo capitolo è paradigmatico del senso del libro: insiste su questi toni per un’ulteriore pagina e mezzo, apologo dell’isolamento e per antitesi stigmatizzazione delle abiure da se stessi cui costringe la millantata relazione con l’altro. Non c’è angoscia nella solitudine del protagonista, anelata e (dunque) non subita.
“Nella solitudine, ho guadagnato di poter decidere da solo la mia dieta spirituale. In casa mia, infatti, non sono più obbligato a vedere nemici a tavola e, in silenzio, udire diffamare ciò che io rispetto; non sono più costretto ad ascoltare musiche che io detesto; finalmente, non vedo più sparsi per casa giornali con caricature mie e di miei amici; mi sono liberato dalla lettura di libri che disprezzo, dell’obbligo di visitare mostre per ammirare quadri spregevoli. In una parola, dispongo della mia anima, per quanto si abbia diritto a disporne, e posso così scegliere le mie antipatie e simpatie”. (pp. 57-58)
Oltre che movente di un’affilata denuncia del pigro conformismo sociale (correlato all’incedere della cosiddetta modernità), la solitudine diventa, in Solo, anche alimento inalienabile del processo creativo:
“Io, che non ho fatto altro che traslocare e viaggiare, ora che godo la tranquillità, sono stato colto dalle impressioni della mia vita girovaga, che si sono concretate in una poesia che s’intitola Ahasverus”, si legge a pag. 82.
Rarefatto e altresì capace di affondi impietosi, un "classico" ricco di stratificazioni, tradotto e analizzato in modo esteso da Franco Perrelli.
Recensione del libro
Solo
di August Strindberg
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