Di recente è uscita una monumentale biografia a lei dedicata, a cura di Benjamin Moser, che la descrive come “l’ultima star letteraria americana”. Sulla copertina spicca il suo volto in bianco e nero, ampio, squadrato, in cui brillano due occhi perforanti che attraversano l’obiettivo. Avanza dritta verso noi lettori, la sua figura sembra camminare in avanti: Susan Sontag ha sempre camminato in avanti, visto oltre l’orizzonte ristretto del proprio tempo. Forse sono queste le ragioni che la rendono, ancora oggi, un’autrice di culto, una sorta di profetessa del futuro - la chiamavano non a caso “La Sibilla di Manhattan”, poiché attraverso le parole è stata in grado di “vedere” e, soprattutto, di interpretare la complessità insidiosa del Reale.
L’esistenza di Sontag si intreccia inestricabilmente con i principali avvenimenti storici del Novecento: era a Cuba durante la rivoluzione, in Vietnam sotto i bombardamenti, a Sarajevo nel periodo dell’assedio del 1992. Non solo lei c’era, ma fu in grado di dare un nome a ciò che accadeva, a riordinare il caos magmatico degli avvenimenti in costante evoluzione, a interpretare il presente nel momento stesso in cui accadeva.
L’attualità di Susan Sontag
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Nata a New York il 16 gennaio 1933, “sotto il segno di Saturno”, Susan Sontag è stata un’intellettuale a tutto campo - scrittrice, saggista, filosofa - ha saputo indagare i grandi dilemmi sociali, politici, morali, comprendendo tutto fuorché sé stessa e la propria “coscienza imbrigliata nel corpo” che ha costantemente sviscerato, dissezionato a tavolino, scarnificato nei suoi diari.
Memorabili i suoi saggi che raccontano senza retorica ogni ambito: dall’arte, alla fotografia, alla politica, senza risparmiare giudizi sferzanti o poco raccomandabili. Quella di Sontag era una nuova critica, una modalità nuova di dire le cose che trasformava ogni giudizio in una sfida, ogni discorso in un’avventura.
Le sue opinioni impetuose non cessano di affascinarci, riescono ancora a smuovere qualcosa nel lettore contemporaneo: a coinvolgerlo, a irritarlo, talvolta persino a spazientirlo, ma il più delle volte fanno centro, assolvendo il loro intento primario, ovvero “farlo riflettere”. Lei, che si definiva “un’esteta battagliera e una malcelata moralista”, sapeva utilizzare le parole come sciabole, sviluppare un’analisi senza sconti contro l’idea stessa dell’interpretazione, opponendosi a ogni convenzione e facile moralismo. Susan Sontag infatti era contraria all’interpretazione - come recita il titolo di un suo famoso saggio del 1966 - poiché riteneva che l’arte in sé, l’oggetto artistico, non potesse essere sottoposto a logiche soggettive, ridotto a un significato, a una visione unitaria.
Qui ritroviamo radicata l’essenza del suo pensiero: il voler dare sempre la precedenza all’oggetto esterno - l’arte o il mondo stesso - rispetto alla sua interpretazione soggettiva. Questa logica la applicò a ogni campo, dalla letteratura agli avvenimenti sociopolitici -memorabile la sua lucida analisi delle guerre viste attraverso la lente delle fotografie in Davanti al dolore degli altri - sino alla malattia intesa come “metafora”. In un altro noto saggio, pubblicato nel 1992, analizzava come la società interpretasse e mistificasse due grandi mali: l’Aids - che all’epoca era un’epidemia tremenda e incurabile - e il cancro. L’attualità del suo scritto, che invitava a non cedere all’immaginario di colpevolezza, sconfitta, debolezza e ineluttabilità che la malattia porta con sé, si è rivelata in tutta la sua dirompenza, nel 2020, in tempi pandemia.
Però l’arte fugge, come la coscienza stessa di Sontag, il nodo irrisolto della sua anima che tuttora palpita tacita e misteriosa nei suoi diari. Susan Sontag rimane un groviglio inestricabile che ci affascina perché rappresenta “l’atto di liberazione intellettuale” per eccellenza.
La sua scrittura stessa, dispersa tra saggi, romanzi, testi teatrali, memoir diaristici, non è riducibile a un’unità, ci dimostra che non esiste un accordo, un’armonia, ma che tutto è moltitudine, frammento e, infine, disperata vitalità. Annotava interminabili liste di attori, musicisti, scrittori, filosofi, registi, sceneggiatori, pittori - tutti poi passati minuziosamente al vaglio dalla sua scrittura - perché erano queste le persone, sosteneva, che riuscivano a proteggerla (a salvarla?) dalla disperazione.
“Sono ancora impegnata a nascere”
Così scriveva Susan nei suoi diari. E noi che leggiamo ora non possiamo fare a meno di pensare: ecco, è questo, che la rende invincibile.
La vita e le opere di Susan Sontag
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Era nata a New York il 16 gennaio 1933, dicevamo. La prima delle sue molte vite. Il padre Jack morì di tubercolosi quando lei aveva soli cinque anni e la madre, caduta intanto nella trappola dell’alcol, si risposò con un uomo di nome Sontag, un capitano dell’esercito americano, che di fatto diede il suo cognome alla piccola Susan (l’originario era infatti “Rosenblatt” ed era ebreo). Nonostante lo scudo della sua nuova identità - fornitale da padre adottivo - da bambina fu vittima di diversi atti di bullismo a sfondo antisemita.
Iniziata la scuola, Susan Sontag si rivelò una studentessa modello. Era eccezionalmente intelligente, in seguito si definì “una bambina mai stata bambina”.
Ed è qui che la sua vita accelera, disperatamente, come una rincorsa o una fuga. A diciassette anni sposò il sociologo Philip Rieff, da cui ebbe il figlio David. A diciotto era già laureata in Lettere e Filosofia presso l’Università di Chicago; ma non interruppe certo gli studi, decise di proseguire con una magistrale in Filosofia e, poi, il dottorato di ricerca venne da sé. Decise di specializzarsi in letteratura inglese e frequentò, per il suo lavoro di ricerca, le università di Oxford e Parigi. Nella Ville Lumière per la prima volta prese coscienza della propria omosessualità, una condizione identitaria che - dichiarò in seguito - l’avrebbe spinta alla scrittura:
Il mio desiderio di scrivere è connesso alla mia omosessualità. Ho bisogno di quell’ identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me.
Nel 1958, otto anni dopo il matrimonio, divorziò dal marito Philip. Nel 1989 avrebbe incontrato la fotografa Annie Leibovitz, che sarebbe stata la sua compagna sino alla fine della sua vita: anche se le due non dichiararono mai pubblicamente la loro relazione - accadde solo dopo la morte di Susan - e non vissero mai insieme.
Sontag ebbe una formazione accademica, oltre che una forte e solida cultura letteraria. A lungo insegnò lettere e filosofia nelle più prestigiose università americane, poi grazie a una borsa di studio poté dedicarsi completamente all’attività che più amava, quella creativa. Iniziò così la sua sterminata produzione letteraria, che variava dalla narrativa alla saggistica, contando anche le numerose collaborazioni giornalistiche per note testate nazionali e internazionali.
Oltre ai suoi celebri saggi che tuttora non mancano di far riflettere e anche discutere, da Contro l’interpretazione (1966) a Sulla fotografia (1973) sino a La malattia come metafora (1988), Sontag scrisse anche dei romanzi. Il più famoso è L’amante del vulcano (riedito da nottetempo nel 2020), un romanzo storico che narra l’insolito triangolo amoroso tra l’ambasciatore inglese Sir William Hamilton, la sua seconda moglie Emma e l’ammiraglio Horatio Nelson. Il titolo del libro, L’amante del vulcano, faceva riferimento al Vesuvio, che rimane sempre sullo sfondo della storia, eppure ne custodisce la morale sull’imprevedibilità delle cose che giacciono sempre sotto la superficie.
La malattia non fu certo una metafora nella vita di Susan Sontag. A metà degli anni Settanta le fu diagnosticato un cancro al seno che la indusse a una riflessione profonda sul concetto stesso di malattia: pubblicò il suo celebre saggio, Illness as Metaphor, nel 1978 quando i medici la dichiararono guarita.
Nel 2004, poco dopo l’uscita del suo libro-manifesto contro la guerra Davanti al dolore degli altri, la malattia si riaffacciò nella sua vita, stavolta aveva il volto della leucemia. Tentò un trapianto di midollo per curarsi, ma non fu sufficiente. La sentenza inappellabile le fu comunicata nel novembre del 2004, le dissero che le rimanevano pochi mesi di vita. Lei decise che non se ne sarebbe andata finché non avesse finito di riordinare i suoi diari - che affidò al figlio David, che la assistette negli ultimi mesi - e limato gli ultimi articoli. Morì il 28 dicembre di quello stesso anno. La compagna, Annie Leibovitz, fotografò il suo cadavere in uno scatto divenuto celebre che è solenne e terrificante al tempo stesso, una sorta di risposta all’affermazione di Sontag:
Lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci.
L’ultima fotografia di Susan Sontag
Nell’ultimo scatto di Leibovitz vediamo una donna anziana (quando morì Sontag aveva settantuno anni), con i capelli bianchi tagliati corti e un lungo abito che la copre sino ai piedi. Così lontana dall’impetuosa Sontag che adesso ci squadra quasi con insolenza dalla copertina del monumentale libro biografia di Moser, edito in Italia da Bompiani. Non sembra vero, eppure sono la stessa persona: la Sontag quarantenne e la Sontag settantenne che riposa nella bara. Anche quell’ultima foto - pur nel suo disturbante effetto - ci dice qualcosa. In fondo esprime l’ultima volontà di Susan e persino il suo monito: guardare il dolore degli altri, non voltare la testa dall’altra parte. Anche quella foto ci parla, utilizzando un linguaggio non scritto.
Lei alla fotografia aveva dedicato pagine e pagine di riflessioni capaci di illuminare il mondo contemporaneo che ha fatto proprio dell’immagine - e del suo primato - uno stile di vita. Non a caso proprio lei stabilì, in accordo con la sua compagna di vita, di congedarsi con un’immagine che raffigura, senza artifici o retorica, ciò che nessuno è in grado di dire o di ammettere: la nostra “mortalità”.
Ora Susan Sontag è sepolta a Parigi, nel cimitero di Montparnasse, riposa sotto una lucida tomba nera con l’iscrizione dorata, simile a quella di Marcel Proust. Se vi capita di passare nei dintorni, noterete che sulla sua tomba non manca mai una rosa.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Susan Sontag: una vita contro ogni interpretazione
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Approfondimenti su libri... e non solo News Libri Storia della letteratura Susan Sontag
Avevo letto anni or sono " Sulla Fotografia" di Susan Sontag e ne fui affascinato. Leggo solo ora del suo " transito terrestre" e ne sono stupito e amareggiato per la sua scomparsa e della mia negligenza. Vi ringrazio e faccio i miei complimenti al direttore e al giornalista dell’articolo. Complimenti e grazie.P.s Susan vive, nei suoi libri, nella ns memoria