Tra il Piave e il Soligo. Né vincitori né vinti
- Autore: Bepi Orlandi
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2013
Non vestiva alla marinara Bepi Orlandi, non erano più quei tempi e negli anni Trenta si indossava anche da piccoli la camicia nera. Ricordava di aver sottratto da un armadio del collegio una divisa in buon ordine da giovane fascista, per sostituire la sua, tutta stropicciata. È a novant’anni in punto, nel 2013, che l’ex sindaco di Torre di Mosto (TV) decise di rendere pubblici i suoi ricordi, pubblicando un volume, “Tra il Piave e il Soligo. Né vincitori né vinti”, nella collana Memorie (120 pagine, 13 euro) della casa editrice trevigiana Biblioteca dei Leoni.
Il Piave del titolo è “il fiume sacro”, tra le pagine riecheggia la presenza dell’invasore tedesco, per un anno, dopo Caporetto, nella guerra 15-18. Il Soligo è un affluente che vi si getta a Falzè, dopo aver attraversato le belle terre del Prosecco, in provincia di Treviso. I fatti narrati da Orlandi risalgono soprattutto alla guerra partigiana contro i tedeschi e i fascisti nella zona, ma due capitoli precedenti sono dedicati a un’amorevole descrizione dei luoghi geografici e a qualche evento dell’infanzia e della giovinezza.
Agronomo e primo cittadino del Comune trevigiano di residenza, ricordato come un uomo di modi gentili e spiccate capacità amministrative, Giuseppe “Bepi” Orlandi è morto nell’ottobre 2018, a 95 anni. Un lustro prima era uscito il volume autobiografico in cui aveva voluto ricordare il suo piccolo mondo di una volta, momenti dell’infanzia e della prima giovinezza, coincisa con l’ultimo biennio della seconda guerra mondiale.
In età matura, diceva, i ricordi si fanno se possibile ancora più vivi, custoditi da anni nell’immenso catalogo della vita. La vecchiaia ha un effetto particolare: le vicende più vicine nel tempo perdono presa, sbiadiscono, mentre i fatti più lontani ritornano nitidi, al contrario.
Il Bepi novantenne aveva ritrovato il Veneto di allora, incredibilmente povero, tanto da chiedersi come abbiano fatto tanti a sopravvivere alla miseria e alle malattie, aggravate dalla guerra e dalle difficoltà del dopoguerra in una regione distrutta, come tutta l’Italia, tanto che molti dopo il 1945 furono costretti a emigrare, proprio come i nonni, sessant’anni prima.
È ai compaesani che si ispira questo lavoro sulla memoria, ai veneti anonimi e ai protagonisti delle fasi dolorose dell’occupazione nazista, segnate da azioni riprovevoli dall’una e dall’altra parte. Se proprio dobbiamo dare una valutazione, la parte in cui i ricordi ritornano all’età dell’infanzia e dell’adolescenza si fa preferire a quella della lotta partigiana, in un testo che nel complesso merita certamente una lettura, per la serenità della prosa e la facilità della sintassi (Orlandi era uno giusto anche come uomo di lettere).
Le pagine tra la fine degli anni Venti e il confitto sono scritte con affetto verso quei tempi e raccontano persone, vicende, condizioni sociali. Regalano uno spaccato apprezzabile della società locale borghese e contadina, sono ricchi di curiosità per chi vive oggi. Quelle più numerose dedicate al biennio delle armi riportano fatti e soprattutto misfatti, azioni, rappresaglie, protagonisti positivi e negativi, ma perdono la patina dolce dei ricordi del passato e prendono una cadenza quasi marziale: stupri, violenze, furti, distruzioni, morti, giustizia sommaria, agguati, rappresaglie. Un’intonazione completamente diversa, un altro spirito.
Bepi era nato il 14 settembre del 1923, primo figlio maschio dopo due femmine, in una famiglia benestante di Pieve di Soligo. Il papà era segretario comunale, la mamma maestra, ma non si pensi a una vita sopra le righe. Non pativano i morsi della fame come accadeva a gran parte della popolazione contadina intorno, però c’era poco da scialare, i tempi erano quelli che erano, vita semplice e rispettosa di quanto si aveva, anche per chi disponeva di qualcosa in più della gran parte dei compaesani.
In giro, qualche corriera, rari camion, pochissime automobili. I ragazzini giocavano a pallone nelle strade: chi lo faceva finire nelle proprietà vicine doveva andarlo a riprendere, quella era la regola.
Strade di ghiaia, mica di asfalto, era uno dei problemi che le irrisorie risorse pubblica di Pieve non consentivano di risolvere. Specie con la pioggia, il fango e le buche rendevano difficoltoso il transito perfino alle biciclette, mezzo di locomozione comunque costoso. Da padrone la facevano i carri trainati da vacche, ma “padrone” è una parola inadatta ai contadini di allora.
Altro problema era l’acqua. Nel 1935, la condotta distrutta dalla Grande Guerra non era ancora ricostruita e alla povera gente, specie alle donne, toccava la fatica di riempire nelle fontane pubbliche i secchi da portare poi sulle spalle. Le più bisognose provvedevano a raccogliere lungo il percorso erbe spontanee, commestibili o curative, che cercavano di vendere ai benestanti.
La vita, in un paese prettamente agricolo, scorreva con più di un grattacapo quotidiano, in particolare per chi doveva sbarcare il lunario, ma nei ricordi da novantenne il colore prevalente è il rosa, nonostante tutto.
Per due anni dopo l’8 settembre 1943 diventò nero, Orlandi non aveva dubbi.
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