Trieste. O del nessun luogo
- Autore: Jan Morris
- Genere: Letteratura di viaggio
- Casa editrice: Il Saggiatore
- Anno di pubblicazione: 2014
Il 20 novembre scorso è morta Jan Morris, scrittrice gallese (già scrittore, con un cambio di sesso che dimostra il nostro essere androgino profondo a livello psichico), storica e giornalista, capace di riprodurre lo spirito dei luoghi da lei visitati e conosciuti con aderenza e condivisione. Possiamo considerarla alla stregua di un "genius loci" latino, divinità protettrice e detentrice della memoria.
Nel 1953 Morris è stata anzi allora è stato il reporter della conquista della cima dell’Everest, impresa indelebile, simbolo del desiderio umano tendente verso l’alto e la conoscenza.
Trieste le sarà sempre grata per il libro da lei dedicato alla nostra città, struggente e carico di nostalgia: Trieste. O del nessun luogo (il Saggiatore, 2014, pp. 221, traduzione di Piero Budinich).
Alla fine di questo volume affascinante, la vecchia, elegante e raffinata signora scrive: "I libri che ho scritto non sono più che graffiti slavati su un muro", e ciò rivela la grande verità del tempo che tutto macina e travolge, ma pure la vitalità dei graffiti, la loro testimonianza del già stato che sempre sarà, scolpito nell’anima, sedimento, magma per il futuro.
Dunque restiamo "in nessun luogo", regno dell’utopia come è la città "fantasma" sul mare, anacronistica e avveniristica, di cui la Morris scrive la storia.
Trieste anacronistica, in quanto sorpassata nel rimpianto della grandezza che fu. Città imperiale creata e voluta da Vienna come suo porto, ideata dalla grande Maria Teresa, sulle tracce del padre Carlo VI che aveva intuito la necessità di conquistare i mari con il nascente commercio della borghesia in ascesa. All’uopo nel 1717 l’imperatore aveva istituito le "patenti" che sancirono il libero commercio nell’Adriatico, per contrastare l’egemonia veneziana già in declino; nel 1719 egli concesse lo "status" di "porto franco" a Trieste e a Fiume: ciò determinerà il destino della "Grande Trieste" nel secolo d’oro successivo e la fortuna della borghesia imprenditoriale e finanziaria della città, spintasi fino all’estremo oriente. Si è trattato della classe a cui Buñuel riconosce il "fascino discreto", qui da noi basato sulla tolleranza religiosa, etnica e culturale, incrementata dalla cultura e dall’arte, non soltanto dall’accumulo di denaro.
Tutto questo non esiste più, da quando la politica e l’assetto della storia, con la fine dell’impero, ha decretato la scomparsa della realtà di autentica convivenza pacifica e benessere diffuso largamente in tutti gli stati della popolazione triestina, con la fine del suo primato sui mari. Ciò andava di pari passo con lo sviluppo dell’istruzione, voluta obbligatoria da Maria Teresa per maschi e femmine fino all’età delle nostre attuali scuole medie dell’obbligo — la prima sovrana in Europa a incrementare fortemente la scolarizzazione. A Trieste non esistevano analfabeti.
Jan Morris rimpiange tale atmosfera, ancora esistente e respirata da lei/lui a 19 anni, quando giunse nella città del sogno e dell’utopia, immediatamente nell’ultimo dopo guerra. Assimilò ciò che ha chiamato "effetto Trieste", unito al termine gallese "hiraet", identico al più conosciuto portoghese "saudade".
Terra del sogno in quanto non tangibile, impalpabile, luogo di ogni cosa possibile:
"Malgrado la sua tradizionale compostezza, Trieste è una città allucinatoria, in cui la fantasia soppianta facilmente la realtà".
Allora perché ricordarla perennemente, se non è tangibile? Se, come risuona il ’"refrain" finale del libro di Italo Svevo Senilità, dobbiamo accettare il monito severo e malinconico: "Non più, mai più"?
Proprio perché il ricordo è segno di un futuro auspicabile. Quel mondo multietnico con le sue rive multicolori di genti, di vociare multilingue descritto magistralmente nelle poesie di Cergoly, preconfigura un’Europa unita pacifica e prospera, in cui tutti potrebbero trovare dignità, spazio, opportunità. Realtà tutt’altro che raggiunta, anzi molto improbabile oggi, se consideriamo la tirannia delle nazioni ricche verso quelle più deboli. Jan Morris auspica che tanto avvenga.
Resta il fascino insopprimibile, il marchio della città nel suo cuore. Resta il suo proclama poetico d’un entusiasmo travolgente:
"Cittadini di nessun luogo, unitevi! Raggiungetemi a Trieste, vostra capitale, e insieme assisteremo dal molo Audace al calare del sole, in compagnia di Casanova, Isabel Burton, Joyce e Svevo, della melanconia di Saba, di alcuni gatti, dell’aquila di Trieste, del re di Vestfalia, dell’anziana signora Revoltella sulla sedia a rotelle, di Mahler, Freud e lord Lucan e di tutti gli altri che prima di noi si sono fermati qui."
In quanto a lei, dopo la morte, immagina di sostare "sotto i bastioni di Miramar, a contemplare il volo di stormi di usignoli". Lo auguriamo al suo spirito.
Lei, ultima inguaribile romantica in un mondo rovinato, in cui pare che il romanticismo sia merce in disuso.
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