Tutte le cose che chiudono gli occhi
- Autore: Annalisa Ciampalini
- Categoria: Poesia
- Anno di pubblicazione: 2022
Annalisa Ciampalini con il suo nuovo libro poetico Tutte le cose che chiudono gli occhi (peQuod, 2022, pp. 75, prefazione di Valeria Setofilli) riprende un grande tema che può essere sintetizzato nella dualità del cosmo intero e della vita: luce/ombra, giorno/notte, il ciclo stagionale con l’alternanza di solstizi ed equinozi, il maschile e il femminile; tutte metafore che la poetessa riconduce alla nostra condizione umana, sempre duale, di fondamentale ignoranza, alla ricerca della verità luminosa. La sua lirica meditante ha la grazia di una carezza lieve, che consola il suo e nostro dolore metafisico. Dolore che è soprattutto lontananza e assenza, distanza che viene spesso sperimentata e lo è stata in modo estremo nel periodo pandemico degli ultimi due anni:
“Nessuno / guarda la sedia vuota al suo fianco. / Lì c’è un luogo in cui la luce arriva piano / il punto che ci guarda / e va taciuto."
L’artista sa scoprire i punti luce dell’esistenza, sorretta da una forte intuizione. Gli orientali lo chiamano "terzo occhio", aperto sull’invisibile e sull’essenza, mentre gli occhi fisici si chiudono perché a un livello alto di meditazione non servono. Il sonno è un fattore rigenerante, granaio di ricchezze psichiche che sono
“Le nostre provviste / cresciute lontano dal sole.”
Precedenti illustri avvalorano questa tesi, dal grande vate cieco che racconta l’eterna guerra e il ritrovamento di Itaca — altro approdo di luce — a Leopardi, Joyce, ipovedenti, a Saint Exupéry con il suo saggio Piccolo Principe, che enuncia come le cose essenziali non si vedano con gli occhi. Nel novero abbiamo anche Montale, la cui moglie ipermiope "vedeva" anche per lui (Ho sceso dandoti il braccio).
Punto luce che viene da “un luogo vasto dove il pensiero cresce” ed è interessante l’analogia tra pensiero e luce:
“Che scenda, ora, tra le cose basse, che si faccia ombra / nell’acqua tonda raccolta nel secchio, / […] Saperlo riconoscere è dire “è questo”. / Vederlo per intero, sentirlo / nella sua sacra brevità.”
Qui ritroviamo tutta la filosofia dell’haiku zen, il suo incanto, una brevità che è “sacra” ovvero eterna. Riscoperta nelle cose umili, usuali, pregne dell’impalpabile:
“Un tempo umile / uno splendore semplice, di terra / luce che nasce dall’erba.”
L’accostamento a Biagio Marin, gradese, forse il maggior poeta della terra giuliana e non solo, nasce spontaneo; Marin è dialettale, ciò lo ha sempre penalizzato. Scrive:
“L’eternità xe qua: / xe quela ch’hè goduo / nel mondo oferto nuo / al sole dell’istà.”
(nuo: nudo; istà: estate. Da “La vita xe fiama”)
Ciampalini sente che pure la scrittura è un segno labile, ma proprio per ciò va scritta, è l’eco e la testimonianza di essere. Nelle sue radiose antinomie trova continuamente sintesi e soluzioni: le parole sono anche
“Luce condivisa, forme circolari di un’idea.”
Ama il mondo piccolo, in cui si percepisce la fessura verso il luminoso, la delicatezza di un fiore, i ricordi di voci che furono terrestri, evocati e sentiti come garanzia di permanenza. Per giungere alla bellezza e alla serenità del ritrovamento di sé, al segreto intuito dietro la facciata greve delle cose:
"Bisogna tenere lo sguardo fermo / non voltare le spalle alle visioni più fragili / custodire l’idea di qualcosa / che risorge e che resta.”
In tal senso la sua poesia è misterica, come del resto è tutta l’autentica poesia.
Anche i viaggi narrati diventano il simbolo della ricerca essenziale, sorvolare il Peloponneso in aereo, rivisitare gli dei, Atena signora della Sapienza.
Nella sezione “La stanza condivisa” l’amore è desiderio intenso e mai, per sua natura, appagato; il verbo al condizionale dice la tensione verso l’Assoluto, l’Uno pitagorico da cui tutti veniamo, e sta in ciò l’essenza del romanticismo, via, cammino teso alla fusione. È amore iniziatico:
“Vorrei essere te / avere nella mente l’idea di scorrimento / la gioia di toccare e andare oltre. / La tua memoria tattile.”
Nella conclusione del libro, riguardo alla nostra terrestrità, la poetessa regala al lettore una intuizione ricca di felicità, armonia, senso e pienezza:
“Noi dobbiamo solo restare vivi / immaginare un luogo che ci aspetta / e una luce prematura. / Inventare questa gioia.”
Ciò che colpisce è il "restare vivi", identificato non solo con la ricerca inesauribile ma pure con l’attesa gioiosa della grande rivelazione dell’oltre, saperla "immaginare" e "inventare", come Leopardi inventa l’infinito, sa e canta "nel pensier mi fingo". Questa è la vita vera. Il resto è contingenza, salvata da questo sogno.
Tutte le cose che chiudono gli occhi
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