Cento anni fa, il 2 febbraio del 1922, venne pubblicato Ulisse, il capolavoro di James Joyce. Ricorre oggi anche il 140esimo anniversario della nascita di Joyce (2 febbraio 1882). Per questa duplice ricorrenza, la nostra collaboratrice Paola Giorgia ci ha raccontato la sua esperienza di lettura di Ulisse, con l’analisi di temi trattati, personaggi e stile di scrittura.
Approssimarsi a scrivere dell’Ulisse di James Joyce è affascinante quasi quanto approcciarne la lettura. Di fronte a un mastodontico capolavoro (e lavoro) di scrittura come questo, sono poche le cose che un lettore semplice o mediamente qualificato può estrarre dal libro senza risultare inappropriato rispetto a tanta critica autorevole che se ne è occupata, tuttavia credo che raccontare l’esperienza del lettore di buona volontà (si passi il termine, ma è così che ci si sente) che si è cimentato in una lettura che può essere fonte di terrore più che di curiosità, credo possa essere utile a chi vi si voglia avvicinare. Certamente, oltre a essere una lettura magnifica, è un’esperienza che può cambiare completamente il modo di leggere e, per questo, ho sentito il desiderio di condividere la mia.
Segnalo che la mia lettura è avvenuta sull’edizione Mattioli1885, del novembre 2021, tradotta da Livio Crescenzi, Tonina Giuliani e Marta Viazzoli.
La magia della lettura di Ulisse di Joyce
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L’Ulisse ha il potere magico di trascinare chi lo legge nel vortice ascendente della letteratura pura; suscita la sensazione di dissetarsi alla fonte della scrittura, di arrivare all’origine delle parole (ce ne sono ben 30.000 tutte diverse), ne rende tangibili essenza e straordinaria potenzialità, regalando la gioia per i componimenti lessicali e il loro uso libero, senza condizionamenti e soprattutto studiato nei minimi particolari per costruire qualcosa di potente e unico. Come disse Giorgio Pressburger, Joyce
“nutre una fiducia illimitata nel potere del linguaggio”.
Sono tanti i motivi per cui lo si può considerare, nel bene o nel male, un unicum nel panorama letterario mondiale di tutti i tempi. Tra questi, metto di sicuro la forza coinvolgente che possiede nell’isolare qualsiasi disturbo esterno che possa deviare il flusso di parole e pensieri che, attraverso un ponte invisibile, congiunge chi legge ai personaggi, creando un’immedesimazione “fisica”.
A posteriori, comprendo bene ciò che disse Ezra Pound, amando molto l’opera:
“Tutti gli uomini dovrebbero ‘unirsi a lodare Ulysses’; coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori”.
Ebbene, non occorre precisare che non mi sento affatto assisa in tale criptico e non meglio identificato ordine intellettuale superiore, però non posso nascondere la soddisfazione di averne portato a termine la lettura e averlo fatto con un’emozione costante verso ciò che via, via trovavo davvero geniale tra le pagine.
Come approcciarsi alla lettura di Ulisse di Joyce
Ulisse di Joyce è sicuramente un universo complesso, al quale mi sono approcciata con curiosità, innanzitutto, e con l’inclinazione alla scoperta. E, forse, è stata proprio questa la chiave di volta che mi ha avvicinata nel modo più soddisfacente alla lettura.
Nell’approcciarsi all’Ulisse è molto importante essere, o sentirsi, pronti ad affrontarlo. Lo suggerisce la mole, certo, ma anche la multifocalità degli argomenti, dei registri stilistici e delle scene narrate senza soluzione di continuità: laddove manchi una forte motivazione per superare i momenti difficili cui dà vita la varietà del libro e in cui questo sembra prendere il sopravvento in chi legge, c’è il serio rischio di smarrirsi e perdere lungo il percorso il piacere della lettura, affaticandosi e perfino irritandosi.
Alla curiosità è anche molto utile affiancare una convinta dose di umiltà. Il lettore non umile, che pretenderà di portare dentro l’Ulisse il proprio modo di vedere o considerare una lettura, avrà perso in partenza. Laddove qualcosa mi sembrava oscuro, ho sempre ritenuto che non ci fossero lacune, ma che fossi io a non capire qualcosa che invece c’era, ponendomi nell’atteggiamento mentale di cercarlo.
Tra gli insegnamenti più preziosi che questo libro riserva al lettore c’è infatti proprio l’opportunità di fare un passo indietro, di perdersi prima di iniziare a leggerlo per poi ritrovarsi a libro finito.
Insomma, Ulisse di Joyce è un magnifico, multicolore invito all’ascolto .
La musicalità del capolavoro di Joyce
La scrittura e la struttura del testo di Joyce si fanno spesso musicali. Non bisogna dimenticare che Joyce aveva rinunciato a una promettente carriera da tenore in parte già avviata e amava moltissimo la musica e l’opera.
In più punti dell’Ulisse, la narrazione arriva perfino a ricalcare la tecnica dello spartito, dei tempi e ritmi della musica, così come l’uso frequente delle onomatopee o dei giochi di parole è spesso strumentale a imitare la musicalità delle parole scelte dall’autore irlandese.
Potremmo dire che Ulisse è una grande sinfonia e le sue singole parti, i capitoli (o episodi come taluni li hanno definiti), sono i vari Maestri dell’orchestra che liberano una melodia straordinaria ciascuno in accordo con gli altri.
Ulisse: trama, struttura e analisi del libro
La struttura del libro è divisa in 18 capitoli/episodi che raccontano una giornata lunga 18 ore, il 16 giugno 1904.
In questo giorno, nella vita reale, lo scrittore ricevette la proposta del primo appuntamento da colei che poi divenne sua moglie, Nora Barnacle, e nel romanzo costituisce l’ambientazione alle vicende dei tre protagonisti (Leopold Bloom, Stephan Dedalus, Molly Bloom) che, in questo arco temporale, vivono, agiscono e soprattutto pensano.
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Ulisse ha quindi una trama minimale che consiste nel racconto di una giornata ordinaria narrata però in modo straordinario.
È proprio dal confronto tra complessità della scrittura e trama che emerge l’eccezionalità dell’opera joyciana, in cui una moltitudine di registri, stili, tecniche retoriche e letterarie movimentano il racconto e spesso possiedono una connotazione fortemente simbolica.
Il libro racchiude il racconto di esistenze qualsiasi, tutt’altro che eroiche, fatte di impegni comuni, discorsi quotidiani, bisogni fisiologici descritti minuziosamente, sentimenti più o meno nobili, percorsi usuali nella propria città tra ambienti noti di lavoro, svago, cultura come semplici botteghe o ristoranti. Bloom e Dedalus, personaggi itineranti, vivono circostanze che rimandano alla complessità della vita, in un gioco di opposti.
C’è di tutto in questa giornata: la sveglia, la colazione, il lavoro, gli acquisti, un funerale, un bordello, un parto, amori più o meno platonici, lettere più o meno spedite, liti, attrazioni erotiche, tutto quello che nella propria vita un essere umano incontra. Ci sono il tradimento, il senso di colpa, il peccato, la morale, la religione, l’ubriachezza, l’abbandono all’istinto come alla ragione; eppure leggendo si ha la netta sensazione che Joyce non si fermi neppure all’apparenza di tutta questa molteplicità e che l’insieme significhi anche qualcosa di più, che rimandi ad altro.
Ulisse di Joyce è un capolavoro immortale
È inevitabile che Ulisse chieda al lettore un’altissima dose di attenzione, ma è proprio questa a fare la differenza. L’attenzione è fondamentale per addentrarsi, lasciarsi andare alle riflessioni e ai rimandi che portano alle tematiche sottese al testo.
Joyce stesso ne disse:
“Ci ho infilato talmente tanti puzzle ed enigmi che il mio romanzo terrà i critici impegnati per secoli a discutere quale ne sia il vero significato. Questo è il solo modo per assicurarsi l’immortalità”.
Ipse dixit. Oggi ricorrono 100 anni dalla sua pubblicazione (2.2.1922-2.2.2022) e non solo è ancora un libro molto letto, ma anche molto discusso come fosse stato pubblicato ieri.
Ulisse è un testo che genera divisione tra detrattori acerrimi ed estimatori conquistati sul campo di battaglia della lettura (tra cui, convintamente, la sottoscritta). È ancora studiato, analizzato e tradotto, anzi, proprio il lavoro di traduzione è costante e impegna traduttori di altissimo livello per restituire versioni sempre più evolute e il più possibile aderenti al valore lessicale della lingua originale, così da farne apprezzare tutta la genialità.
L’originalità del flusso di coscienza in Ulisse di Joyce
Il flusso di coscienza ha preso tutta la scena nell’ambito delle analisi dell’Ulisse perché, in effetti, diede una sferzata al modo di scrivere successivo, anche se non era una totale novità. Prima di lui, nel 1887, Edouard Dujardin nel suo Los Lauriers son coupes usò quello che fu definito racconto naturalistico, ovvero il soliloquio in presa diretta dell’Io che parla a sé stesso, c.d. monologo interiore.
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Joyce realizzò una rivoluzione nella rivoluzione, che manifesta al massimo livello in uno dei due monologhi interiori più importanti del testo: non il primo, che appartiene a Dedalus, situato nella parte iniziale, bensì l’ultimo, a conclusione del libro, che è il monologo interiore di Molly Bloom. Il genio creativo di Joyce si esprime qui, creando un unico flusso di pensieri senza interruzioni, espungendo punteggiatura e ogni tipo di segno tipografico.
Questa operazione era qualcosa di assolutamente nuovo, dirompente. Neppure la letteratura italiana che stava conoscendo proprio in quegli anni qualcosa di simile, con Le parole in libertà e l’immaginazione senza fili futurista di Tommaso Marinetti, era giunta a questo livello di destrutturazione della parola.
Rispetto all’operazione compiuta da Joyce con l’Ulisse, la corrente rimaneva un passo indietro, ancora legata a forme letterarie consuete e battute che in Joyce scompaiono del tutto. L’autore irlandese si allontanò inesorabilmente dal futurismo per anticipare invece quello che, di lì a poco, sarebbe stato il vero e proprio surrealismo.
A partire da eventi più o meno impercettibili della realtà esterna, Joyce ci porta dentro la mente dei suoi personaggi e ci mette a disposizione, senza le mediazioni della narrativa e degli strumenti letterari tradizionali, ciò che essi provano, ricordano, avversano, sperano. Joyce mette le mani dentro l’interiorità dei suoi tre personaggi come fosse carne viva e materia tangibile ed è lì che conduce chi legge senza filtri, lasciandolo peregrinare esattamente come accade ai personaggi (o a noi) nella vita di tutti i giorni.
Con il suo flusso di coscienza, Joyce rende possibile l’impossibile: entrare nella testa degli altri. Il lettore entra direttamente nei pensieri dei suoi personaggi, in quello che vedono, vedendolo con loro nello stesso momento, senza i filtri del racconto. I personaggi non ci raccontano cosa sentono o cosa fanno, ma sentono e fanno tutto insieme a chi legge.
Per esperienza, posso dire che non ho trovato un ostacolo alla lettura nel flusso di coscienza, come pure ho letto in molte occasioni, quanto piuttosto la ricchezza di contenuti e il frequente cambio di registro e tono che si susseguono senza un rigore logico apparente mi hanno talvolta disorientata. La sequela di immagini che si affastellano e che solo apparentemente non sono connesse tra loro si ricompongono come un mosaico alla fine di ciascun episodio, recuperando così la sensazione di coerenza.
Se dunque l’impatto con il libro sulle prime disorienta, durante la lettura tutto si fa più accessibile. Non so a quale miracolo o fenomeno esoterico-letterario si debba attribuire questa trasformazione della difficoltà in piacere e divertimento, eppure accade. Potrebbe essere una sorta di assuefazione o (e propendo per esperienza personale per questa) un’identificazione nel modo che tutti sperimentiamo di pensare e vivere il nostro quotidiano e personalissimo flusso di coscienza.
Del resto, non sfugge al lettore attento che si metta all’ascolto della pagina la tecnica con la quale Joyce introduce o dà impulso al flusso di coscienza: una manciata di righe in cui si descrive una scena che accade nell’ambiente esterno diventa stimolo per le riflessioni interiori. Si tratta di un meccanismo dunque assai chiaro che permette, lungo la lettura, di non perdere mai la bussola e che compie un percorso dall’esterno verso l’interno. Per questo la varietà di emozioni che si provano leggendo l’Ulisse non è paragonabile ad alcun altro libro.
Ulisse è un libro sensoriale
Ulisse è un libro che definirei sensoriale, a partire dalla musicalità, cui si accennava prima, che Joyce ottiene con l’uso e la destrutturazione sapiente della parola, presa non solo nel suo significato, ma anche, e soprattutto, nel suono originale e in quello ottenuto dalla manipolazione del suo abuso e riuso. In questo, purtroppo, nella traduzione si può perdere la stragrande maggioranza del pregio e della genialità dell’opera.
Chi legge percepisce i suoni lungo la via, sulla spiaggia, i rumori, i toni umani più disparati dall’ubriachezza al dialogo intellettuale o i colori vividi di una carta da parati floreale, dei fuochi d’artificio e del sangue mestruale sul lenzuolo o del mare al tramonto.
E ancora, il lettore può sentire gli odori delle persone, dei locali, delle strade, degli oggetti, i profumi delle saponette al limone, dei vestiti, l’odore acre del rognone bruciato nella padella della colazione.
Il lettore avverte i sapori del cibo che i personaggi mangiano nei pub, o la fragranza del fumo che emanano dalle loro poltrone o li raggiunge per strada.
Tutto è vicino al lettore e privo di filtri entra immediatamente nella sua sfera di percezione diretta, legandolo al libro in quell’esperienza unica che ne diventa, per questo, la lettura.
La vicinanza del lettore con i personaggi di Joyce
Con l’incedere nella testa dei personaggi, il lettore non solo si riconosce nelle elucubrazioni, ma il flusso di coscienza realizza anche il suo desiderio recondito di poter leggere nella mente e nei pensieri degli altri e scovarne anche qualcosa di simile a se stesso.
I personaggi di Stephen, Leopold e Molly sono così vicini che non ne vediamo più le differenze, ma solo le assonanze con noi stessi e questo grazie a un punto di vista che è talmente dentro la storia e la narrazione che porta ad altezza d’uomo anche lo sguardo del lettore, che si ritrova materialmente a camminare per le strade di Dublino.
Il punto di osservazione è mescolato ai personaggi, non esterno. Anche il lettore, all’improvviso, rimugina con Stephen sulla spiaggia, è lì a condividerne i pensieri; li vede, quasi aggiunge qualcosa di suo in quel processo di immedesimazione.
Peregrinano i personaggi, come peregrina il pensiero. Ed è così che in alcuni episodi il pensiero del personaggio diventa personaggio esso stesso e si trasforma in vera e propria letteratura. Nel senso tradizionale, la forma diventa sostanza. E se è vero che questi sono i passi più difficile dell’Ulisse, non sono però incomprensibili e la gioia di vedere materializzare un simile genere di letteratura è qualcosa che difficilmente si può descrivere.
Ulisse è la porta del modernismo
La tecnica di scrittura di Joyce è diventata nel tempo il carattere distintivo dell’Ulisse, simbolo non solo del superamento di tutta la tradizione letteraria in sé, ma anche dell’interpretazione e concretizzazione dei cambiamenti sociali e culturali che cominciavano a segnare l’età vittoriana ormai esausta. Di sicuro, la consapevolezza che si tratti di un libro estremamente simbolico ne aiuta la lettura, poiché spinge ad approfondire sempre ciò che è scritto.
Definire l’Ulisse di Joyce come la “riscrittura” in chiave moderna dell’opera omerica, o il mero paragone con l’Odissea, ritengo per questo che sia penalizzante. L’Ulisse joyciano è molto di più: è paradigma, è archetipo degli archetipi e sua negazione, è evoluzione di stile e letteratura, ma anche di visione sociale e culturale oltre che letteraria.
Ulisse è la porta del modernismo.
Le tematiche affrontate in Ulisse di Joyce
Nell’Ulisse si celano scenari che riportano a tematiche fondamentali, prima fra tutte quella religiosa, e non solo nel confronto tra cattolicesimo ed ebraismo, ovvero la religione dell’Irlanda opposta a quella di Bloom, ma anche qualche rimando al culto animista, alla concezione che più volte Joyce articola come metempsi-casa (rifacendo il verso alla metempsicosi con un gioco di parole uno dei tanti).
Non va dimenticato che per anni lo scrittore si interessò alle religioni asiatiche, alla religione vedica, all’induismo, dunque mostrando una tendenza osmotica, contaminante tra culti occidentali e orientali, e non di meno alla massoneria che già dal ‘700 aveva fatto breccia proprio nella cultura anglosassone.
Sono molte le riflessioni in solitaria, e in coppia, di Bloom e Dedalus che discutono sulla definizione di anima per relegare questa tematica a incidentale o ancillare rispetto a quella del cristianesimo. Sono molti i riferimenti al simbolismo massonico sparsi nella narrazione, come uno di protagonisti che è dichiaratamente massone.
È anche significativo lo spazio dato in modo ricorrente, quasi ossessivo, al ruolo e alla concezione della donna, con riflessioni sulla creazione, nel corso dei secoli, di una figura femminile a opera della visione cattolica e del cristianesimo, sempre più trascendente piuttosto che umana. Joyce compie il passaggio da una visione e missione ancillare a una posizione individuale e indipendente da quella maschile.
L’intreccio, tutto religioso, tra sessualità e procreazione, con le conseguenti ricadute nel terreno del senso di colpa, del peccato, a cascata dalla forma primigenia del peccato originale è evidente e percorre l’intera opera. È noto che per Joyce l’amore per la Bibbia era pari solo a quello per Dante.
I costanti riferimenti ad alcuni passi biblici e la critica all’ingabbiamento della sessualità nella procreazione acquistano nuovo significato nel personaggio di Molly, donna che tradisce, perché tradita, ma anche per puro piacere personale. Joyce scardina e scinde il binomio sesso-procreazione con una figura femminile meravigliosa: Molly, l’esemplare femminile moderno in cui l’amore romantico e la sessualità disinvolta convivono in modo equilibrato e sopravvivono al paragone con la Vergine celeste. Molly è la donna che usa parole scurrili, ma che insieme esalta la propria femminilità e disdegna le sue simili che la soffocano o la castigano.
Il lettore affronta un articolato coacervo di tematiche, una cornucopia di riflessioni e spunti culturali, ma anche esistenziali che sono versati nei personaggi.
Tutto è antieroico e antidivino nell’Ulisse, ma amabilmente e crudamente terreno. L’Ulisse trasuda umanità, parla delle cadute e delle grettezze umane, ma rimane privo di qualsiasi assoluta connotazione morale o moralistica. Ed è qui che Joyce va oltre la tradizione del romanzo esistito fino ad allora. Quello che Joyce descrive rimane sulla pagina e non diventa una lezione da imparare, non c’è volontà di manipolazione nella sua scrittura o nel suo racconto.
Perfino temi come la masturbazione femminile (nel monologo finale di Molly Bloom), le sveltine dietro le quinte di un teatro o le fantasie erotiche di Bloom su una spiaggia al tramonto, eccitato dalla visione delle grazie ostentate da una ragazza ben più giovane di lui, sono offerti al lettore senza sostrati etici. Sono lì solo per essere visti, conosciuti, sdoganati da qualsiasi zavorra moralistica perché sono parte di una realtà che però è sempre relegata, con una coltre di ipocrisia, dalla bigotta morale religiosa o sociale nella grotta buia del peccato, della perversione indicibile. Se forse una condanna si trova in Ulisse è proprio quella dell’ipocrisia di cui Joyce si professa nemico dichiarato.
Per rimanere sul tema del sesso, sono svariati i passi all’interno di ciascun episodio in cui se ne parla, anche in modo molto esplicito, perturbante soprattutto se letti nell’epoca in cui fu scritto e pubblicato il libro.
La difficile storia editoriale di Ulisse di Joyce
La pubblicazione di Ulisse fu rimandata da una censura per oscenità che gli valse un blocco di oltre dieci anni e acerrime ostilità. Le vicissitudini del libro sono paragonabili solo alle tante patologie che minavano la salute del suo autore. È noto, infatti, che Joyce soffrisse di tanti disturbi fisici, a partire dal glaucoma che lo costringeva a mettere una benda sull’occhio sinistro e che ne restituì una delle sue immagini più iconiche. Le avversità che accompagnarono l’Ulisse furono ancor più pesanti e passarono dalla madrepatria fino oltreoceano, dove il libro subì censura e, letteralmente, il rogo.
Fino al 1920, fu pubblicato a puntate sulla rivista The Little Review, ma il quindicesimo episodio, uno dei più complessi dove l’immaginario e la visione di Joyce raggiungono l’acme, suscita la reazione delle autorità e la Corte statunitense ne dichiara l’illegalità.
Nel 1933, la New York Society for the Soppression of Vice ne confiscò a un contrabbandiere una copia appena sbarcata in città. Come si seppe in seguito, grazie alla pubblicazione del libro autobiografico “At Random” di Bennett Cerf, fondatore della casa editrice Random (che poi distribuì per prima l’Ulisse in America), quel sequestro era premeditato e finalizzato proprio a sdoganare per sempre il libro.
Grazie a un’accurata pianificazione che avrebbe permesso al giudice di leggere tutte le critiche favorevoli all’opera direttamente nel testo, aggirando il divieto probatorio di allegarle separatamente, l’avvocato difensore dell’Ulisse, Morris Ernst, e Cerf ne fecero stampare dalla Random una copia integrale che le includesse. Si assicurarono, poi, che detta copia fosse sequestrata a quel contrabbandiere e quindi il processo finisse, insieme al libro, dritto sulla scrivania del “giudice adatto” (di turno proprio il giorno del sequestro, scelto appositamente), così da ottenere una sentenza favorevole. È infatti al giudice Woolsey (lo stesso che anni dopo sdoganò Tropico del cancro di Miller) che Joyce deve la definitiva assoluzione del suo capolavoro dalle accuse di oscenità.
Da lì in poi, l’Ulisse fu ritenuto pubblicabile e così, nel 1960, grazie alla Mondadori, arrivò anche in Italia, a traduzione di Giulio De Angelis, nel numero 441 della collana Medusa.
La contaminazione della psicanalisi nel libro di Joyce
Per nulla oscena, dunque, la visione della sessualità joyciana era specchio anche di un altro cambiamento epocale, dovuto all’integrarsi della tradizione psicoanalitica freudiana con gli studi di Carl Gustav Jung. Con l’eminente psichiatra, Joyce entrò in confidenza a ragione della figlia, affetta da schizofrenia, circostanza che lo spronò ad approfondire i temi dell’inconscio e a portarli anche nella stesura dell’Ulisse, forse proprio nella realizzazione del flusso di coscienza.
Un vero proprio caos creativo, insomma, nel quale Joyce indugia, sguazza, si diverte, e il suo divertimento diventa quello del lettore umile, paziente e curioso che, può senza dubbio, arrivare alla comprensione dell’opera.
L’amore di Joyce per Dante in Ulisse
Un’altra marcata sensazione che mi ha lasciato Ulisse di James Joyce è la vicinanza alla struttura e alla visione di Dante Alighieri. Credo possa dare degli input interessanti alla lettura soprattutto nel capitolo quindicesimo in cui mi è apparsa molto evidente e che mi ha permesso poi, anche a ritroso, di ripercorrere alcune cose rimaste poco chiare.
Molte sono le citazioni della Comedia e alla luce di questo mi sono lasciata guidare da quello che solo apparentemente può sembrare un accostamento audace. In realtà, Ulisse è pervaso dalla visione di Alighieri e Joyce non ne fece segreto in alcune sue confessioni, come poi ho scoperto, facendo degli approfondimenti. Molte volte sembra di toccare con mano la simile struttura e ripartizione degli episodi e l’accostamento della dimensione mitologica a quella cristiana.
Ad esempio, nel quindicesimo capitolo in cui Bloom e Stephan, incontrandosi per la prima volta durante il loro peregrinare nel bordello di Bella Cohen, si respirano nettamente le atmosfere della discesa all’inferno.
La sensazione è che Ulisse sia il risultato di un’opera di “stratificazione”, in cui partendo dall’esterno si trovano le somiglianze più superficiali con l’omonima opera omerica, ma procedendo verso l’interno si passa per Shakespeare fino ad arrivare al nucleo dantesco. È come se un fil rouge legasse tali autori che, ciascuno nella propria epoca storica, sono stati sperimentatori della lingua nel senso della destrutturazione, dell’uso dell’onomatopea e come strumento di contestazione ed evidenziazione critica dei malesseri delle società e cultura di appartenenza.
Molly e Leopold Bloom: analisi dei personaggi
Quando Molly Bloom pensa e riflette sul suo letto, l’attenzione particolare che Joyce riserva ai personaggi femminili (cui andrebbe dedicato uno studio approfondito) si colora di nuove sfumature e giunge a compimento. Come detto, è frequente il riferimento al rapporto tra donna creatrice e donna creatura seducente, quindi tra femminilità e sessualità, ma nella parte finale Molly dissolve tutti i dubbi sulla misoginia, sulle considerazioni oltremodo sessiste, sulla beatificazione della donna (che resta comunque terrena e in contrasto con la donna angelica che Joyce vede solo nella Vergine santa) e si ribalta tutto.
Molly è spinta creativa, donna e forza generatrice, con la sua fertilità e il ciclo mestruale di cui Joyce, totalmente libero come quasi neppure in epoca moderna accade, parla liberamente.
Ma Molly è anche femmina, libertina, indipendente, quasi donna rivale della sua stessa figlia, Milly. Un’evoluzione femminile che si compie nell’arco del romanzo e che, nel monologo finale di Molly Bloom, si sublima, portando a compimento un percorso che dà senso a tutto ciò che si è letto prima.
Il flusso di pensieri continuo di Molly è eccezionale: descrive e ridicolizza la natura maschile incarnata in Bloom che diventa paradigma di tutto l’universo maschile; una serie di pensieri sarcastici che qualsiasi donna sposata formula almeno una volta nella vita coniugale ai danni di suo marito.
Ridicolizzato nelle sue fisime, nella sua terrena limitatezza, anche nel generare, Leopold Bloom è un povero Cristo che cammina nel mondo in preda alle sue sconfitte e alle sue mille, infinite domande esistenziali. Non è più giovane, non ha le certezze della ragione che possiede Stephen, è alla costante ricerca di una soluzione al problema del rapporto con il padre. È un padre sconfitto dalla morte dell’unico figlio maschio e figlio mai risolto nei confronti della figura paterna. Vive, o sopravvive, sospeso nel limbo, nel purgatorio delle sue irrisoluzioni.
Malgrado questo, però, il monologo di Molly è vita pulsante, è un inno alla gioia di vivere, ai colori, al sogno e alla passione. Molly ha pensieri e vita irruenti, è giocosità nel flirtare e nell’erotismo, è sensualità incarnata, è frutto succoso e polposo che contraddice tutta l’abitudine moraleggiante dell’epoca storica ormai quasi alle spalle e introduce a un’epoca nuova. Un rinascimento femminile che chiude il libro, suscitando un’immensa emozione; un’energia potente che si libera tutta nella frase finale, di una bellezza inaudita, come liberatoria:
“e io dissi sì, lo voglio, Sì”.
L’ardore di Molly lascia senza fiato.
È singolare come, dopo aver faticato nella lettura di un libro tanto lungo e impegnativo, Joyce, con questo monologo interiore da leggere tutto di fila per 43 pagine, riesca a seminare nel lettore, la voglia di tornare a leggere il libro daccapo. subito. Questa è la straordinaria potenza della parola scritta e della sua capacità di metterla la servizio dell’umana dimensione che esprime, che fu l’arte di Joyce.
Insomma aveva ragione l’autore a definirlo un “maledettissimo romanzaccione”.
L’Ulisse joyciano rappresenta le Colonne d’Ercole della letteratura, il limite oltre il quale si passa al nuovo mondo della letteratura, al ‘900. Venuto alla luce in un’epoca di grandi mutazioni, dovute alla ricerca psicanalitica, quasi in contemporanea con la teoria della relatività di Einstein, coevo delle avanguardie, del cubismo, questo libro quintessenza del processo evolutivo anche nella forma, è atomo che racchiude, nella sua piccola grandezza, tutto il panorama della letteratura conosciuta fino ad allora e ne riproduce, superandoli, trasfigurandoli, tutti gli stili. Dalla parodia alla forma classica, dal romanzo rosa alla drammaturgia, sfoggiando qualcosa che sarebbe diventato, negli anni successivi, una sceneggiatura, e che, essendo stato scritto quando ancora il cinematografo non esisteva, evidenziava tutta la genialità del suo autore.
Ulisse è davvero un viaggio, e forse l’eroe è il lettore, che parte si affida alle parole come al vento e naviga nel flusso joyciano, fino a perdere le forze. Un viaggio che compiuto da soli o in gruppo, non cambia l’emozione nel farlo.
Se c’è una cosa che mi sento di sconsigliare, tuttavia, è leggerlo aiutandosi di una delle tante guide di aiuto alla lettura che ci sono. Credo che, aldilà di quello che si ritiene di comprendere del libro, valga la pena leggerlo, facendo affidamento solo sulle proprie capacità di lettori. Sarà forse più produttivo fare delle ricerche posteriori per approfondire impressioni di lettura o dare risposte alle tante domande e ai dubbi che il libro suscita, piuttosto che “intrappolare”, a priori, la lettura nell’interpretazione altrui.
Ulisse è un libro pieno di sollecitazioni e di stratificazioni, le chiavi di lettura sono, e possono essere, molteplici e sarebbe un’occasione persa non dialogare direttamente con il testo e le intenzioni del suo autore, bensì dotarsi di un interprete che non parla, comunque, la nostra lingua. Non porterebbe a una lettura vera e vissuta. Penso inoltre ai vari schemi, quello di Linati e simili, che per ciascun capitolo introducono un titolo che ricalca pedissequamente quello omerico. Pare siano stati stilati da Joyce in alcune lettere, in temekpi successivi alla pubblicazione per aiutare a districarsi, ma il rischio è comunque quello di concentrarsi solo sulle similitudini con l’opera antica, tralasciando invece tutta una serie di input altrettanto validi e originali che conducono a strade diverse, ma valide oltre che molto suggestive e a cui si può arrivare tramite il proprio personale bagaglio di lettore. Del resto, nell’edizione originale, Joyce non inserì alcun titolo agli episodi.
Altro discrimine per il lettore consiste nella traduzione. In Italia ne abbiamo moltissime e di gran valore. Talvolta, l’esperienza di lettura può dipendere anche dalla scelta della traduzione, con o senza note di accompagnamento, e anche in questo mi sento di affermare che, forse, limitarsi al testo, nudo e crudo, più vicino alla forma originaria può riservare piaceri più gratificanti rispetto all’attenzione da dividere anche con un parterre di note e riflessioni aggiunte. Tutto ciò che Joyce volle dire al suo lettore è lì, nel testo, già copioso. Ne sono convinta.
Credo si possa dire altro e altro ancora di questo straordinario libro, e anche tutto e il contrario di tutto, il grande filosofo Jacques Derrida confessò: “Ogni volta che scrivo su Joyce un suo fantasma improvvisamente mi assale". Figurarsi noi!
Ciò che rimane incontrovertibile sono la sua grandezza e unicità. Un libro, aveva ragione Pound, da cui non si può prescindere e forse perché, come diceva il noto psicanalista Jacques Lacan, Joyce, “riuscì a fare di sé stesso (nella pur sfibrante fatica) un libro”.
In questo trasformarsi in oggetto-libro si conquistò quell’eternità di cui, per gioco, richiamò l’intenzione, parlando della forma stilistica complessa che aveva dato all’Ulisse.
Di certo, il viaggio che si compie con Joyce è indimenticabile, è un viaggio sfaccettato e che affatica, sì, come tutti i percorsi pieni di vita, di sentimenti. Come tutte le terre da scoprire però, lascia ricordi indimenticabili e sensazioni indelebili e la voglia, intensa e (speriamo non troppo) folle di ritornare in quei luoghi, per carpirne altre verità, altre sensazioni.
Perché Ulisse è un simbolo, e come tale rimanda ad altro. Molto altro, ma questo lo lasciamo scoprire a chi lo leggerà, misurandosi con un capolavoro indubbio.
Se, poi, qualcuno deciderà di leggerlo proprio quest’anno, beh, si ricordi di alzare un calice alla sua salute, magari proprio il 16 giugno, giorno in cui, in tutte le parti del mondo, si celebra il c.d. Bloomsday, proprio in onore del personaggio e in ricordo dell’opera.
Cento anni sono un bel traguardo, soprattutto se ci si arriva così: incompresi come un adolescente qualunque o come un vero genio.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Ulisse: perché leggere il capolavoro immortale di James Joyce a 100 anni dalla pubblicazione
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Grazie. Studiero’ il pregevole lavoro di studio ed analisi fatto dalla ricercatrice. Se solo si avesse tempo...posso solo aggiungere che Joyce, di cui ho letto Gente di Dublino nella sua versione in lingua inglese, pote’ contare su un poderoso e solido basement per il suo lavoro, la moglie, la figlia, cosi’ ben tratteggiate caratterialmente e psicologicamente in Gente di Dublino. Grazie. Ho studiato la vistra utile antologia didattica su Verga e in questi giorni sto spolverando un po’ la lettura di novelle e performances tetrali.