Un orribile sogno. L’attacco con i gas sul San Michele il 29 giugno 1916
- Autore: Francesco Villari
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
Una vicenda dolorosissima, in un volumetto pieno di orrore. Si respirava morte sulle colline del Carso goriziano, una mattina di fine giugno di oltre un secolo fa. Gli ungheresi usarono mazze ferrate per finire i fanti italiani semi asfissiati dal primo uso di armi chimiche sul fronte italo-austriaco. L’episodio disgraziato dell’enorme dramma ch’è stato il Primo conflitto mondiale è drammaticamente descritto nel diario di un testimone - poco distante, ma al sicuro - un militare del genio telegrafisti in linea sull’altopiano carsico, il calabrese Francesco Villari, estensore delle brevi memorie pubblicate da Gaspari Editore qualche mese fa, con il titolo Un orribile sogno. L’attacco con i gas sul San Michele il 29 giugno 1916 (Udine, ottobre 2022, 64 pagine).
In tre, di altrettante generazioni familiari, per realizzare questo documento nitidissimo nella sua autenticità: il nonno, Francesco Villari, autore del diario; il figlio Lucio, storico e già docente a Roma Tre, che ha firmato la prefazione; la nipote Anna, museologa e storica dell’arte, che ha curato amorevolmente l’attenta trascrizione. Determinante l’interesse altrettanto appassionato e decisivo ai fini della pubblicazione dell’editore ricercatore Paolo Gaspari, sensibile a queste tematiche e alla lunga stagione della Grande Guerra.
All’alba dalle quattro cime del Monte San Michele gli austriaci lanciarono per la prima volta il “fosgene”, un composto liquido di cloro e carbone, incolore, molto volatile sebbene più pesante dell’aria, estremamente tossico. Se inalato, provocava come primo effetto irritazione e tosse, poi sviluppava acido cloridrico nei polmoni e portava alla morte per edema, anche a distanza di ore. Spinti da un vento favorevole, i gas scivolarono sulle truppe delle brigate Regina e Pisa. I soldati erano impreparati. Pochissime le maschere, comunque approssimative e inadatte.
Il racconto. Sotto le armi già nella guerra di Libia, Francesco Villari si trova in un posto d’appoggio di trasmissione sulle pendici, a vista ma distante. Assiste e descrive la scena con estrema lucidità. Scene da tragedia manzoniana nel diario, che si apre proprio con quella giornata, tra le più infauste dell’intero conflitto e contiene foto in bianco e nero, qualcuna scattata dallo stesso caporalmaggiore.
Il 29 giugno 1916, appena il giorno è chiaro, una leggera nube verdastra si materializza da quota 170 e propagandosi verso sella San Martino si fa più densa. Raggiunge il Bosco Cappuccio, scivola verso la pineta di Sagrado e tende sempre al basso, invade i ricoveri, le caverne, le buche. Si levano grida che non hanno niente di umano. Gli uomini corrono senza una direzione. Ognuno dovrebbe avere una maschera, ma per incuria o negligenza quasi tutti ne sono privi. Invocano aiuto e barcollano. Cercano un sostegno per restare in piedi, annaspano con le braccia.
Nella confusione si urtano e cadono per non rialzarsi più. Si disputano una maschera, un pezzo di cotone bagnato. La lotta per la vita continua fin quando i contendenti non si esauriscono e si accasciano esanimi. Altre scene di disperazione inaudita si svolgono ai posti di medicazione, in centinaia vogliono rimedi per scongiurare la morte certa che sentono ormai vicina, ma il medico ha soltanto l’indispensabile per le fasciature dei feriti, offre tutt’al più cotone bagnato di alcool, efficace solo per breve tempo.
Si vedono soldati, consci della propria fine, che hanno in mano una fotografia o l’immaginetta di un santo. Non fuggono, non chiedono aiuto, non imprecano, non maledicono. Seduti per terra, sgranano gli occhi, respirano a pieni polmoni, quasi invocando la morte più sollecita. Altri si sdraiano contorcendosi, lamentandosi, emettendo grida gutturali incomprensibili. Quasi tutti tossiscono, qualcuno starnuta. Chi sente di non sopravvivere, si finisce da sé picchiando la testa contro i macigni.
Intanto il nemico avanza, rassicurato dalla mancata resistenza, armato di mazze chiodate, armi infami per risparmiare pallottole, mentre da lontano spettatori impotenti in grigioverde gridano a gran voce il loro sdegno. Eppure nuclei di moribondi cominciano a battersi disperatamente. La reazione italiana prende a concretizzarsi, nuclei nemici sono battuti dall’artiglieria leggera con tiro accelerato, le mitragliatrici crepitano. “Savoia!” mai tanto urlati con rabbia annunciano la reazione alla baionetta di nostri reparti intatti. Contrattacchi organizzati in fretta riprendono una posizione dopo l’altra.
Cambia il vento e ora gli ungheresi sono minacciati dal gas. Quelli isolati dal contrassalto, buttate le armi, si inginocchiano implorando, piangendo. Cercano le mani dei nostri per baciarle. Ma tutti hanno visto:
Come hanno finito a colpi di mazza i poveri nostri avvelenati.
Non ottengono clemenza. I fanti grigioverdi raggiungono le posizioni ch’era stato impossibile difendere, si ristabilizzano sulle primitive. La brutale azione nemica ha ottenuto solo di uccidere.
Ardua una stima delle perdite. L’Ufficio storico dell’Esercito si ferma a 200 ufficiali e 6500 uomini di truppa, 2700 morti. L’avversario complessivamente 23 ufficiali e 1549 soldati (dei quali rispettivamente 7 e 215 per effetto del fosgene).
Così riassume l’episodio. Nelle trincee presso il paese di San Martino del Carso, dopo il lancio dei gas il nemico penetrò agevolmente nelle prime linee, trovando solo cadaveri o soldati inabilitati, mentre quelli ancora validi ripiegavano verso il basso in preda al panico. Anche le trincee del San Michele vennero investite fino a Peteano e Sdraussina. L’intervento del colonello Gandolfo valse a fermare parte degli sbandati, mentre dal Bosco Lancia i reparti rimasti della brigata Regina organizzavano il contrattacco. Nel pomeriggio, il terreno perduto era interamente ripreso.
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