Una conversazione a Palermo con Leonardo Sciascia
- Autore: Ian Thomson
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Rubbettino
- Anno di pubblicazione: 2022
Pare che Sciascia l’abbia descritto come un signore inglese “molto serio”.
È Ian Thomson che il 7 dicembre 1985 poté intrattenersi con lui nella casa di Palermo dove lo scrittore racalmutese abitava. Più di tre ore la durata della conversazione. Alla fine Leonardo Sciascia prese dallo scaffale il libriccino, pubblicato per Sellerio, Per un ritratto dello scrittore da giovane, su Giuseppe Antonio Borgese e con dedica gliene fece dono.
Il resoconto dell’incontro nel volumetto che, intitolato Una conversazione a Palermo con Leonardo Sciascia (Rubbettino, 2022, traduzione di Adele Maria Troisi), costituisce il primo numero dei “Quaderni di Regalpetra”, collana diretta da Vito Catalano, nipote del Nostro scrittore.
Nell’introduzione Thomson scrive:
Un anno dopo, rientrato a Londra, mandai a Sciascia la prima edizione del poema “Goblin Market” di Christina Rossetti, del 1933, illustrato da Arthur Rackham. Sciascia mi aveva detto che collezionava le illustrazioni di Rackham. Custodisco tra i miei tesori la sua lettera di ringraziamento.
Quattro anni dopo l’intervista, Sciascia muore e nel 1999, appena un anno dopo, pubblica in Gran Bretagna la traduzione di tre suoi libri, Morte dell’inquisitore, Cronachette, La strega e il capitano. Un accenno ora alla biografia intellettuale che affiora da queste deliziose pagine. Dopo un piacevole monologo su alcune opere di Sciascia che il giovane giornalista e scrittore si fa nel corso del suo viaggio in treno espresso Roma-Palermo, trovandosi a tu per tu con lui, scrive:
È in piedi, curioso incrocio tra Albert Camus e Humphrey Bogart, accanto a un portaombrelli che contiene una nutrita collezione di bastoni dal pomo d’argento. Indossa un abito da sartoria di serge grigio con una vivace cravatta rossa.
Le pagine si leggono d’un fiato per l’immediatezza della comunicazione. Fluida la parola da cui affiorano sensazioni e dettagli e che ha il tono di chi osserva e rievoca pensieri riflessioni di Sciascia. Benché abbia più volte detto e scritto di essere stufo per essere stato definito “mafiologo”, parla di “Mafia” Sciascia e cita la sua riscrittura di una vecchia opera di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca intitolata I mafiusi di la Vicaria.
Con tenace sicurezza viene così ricostruito un percorso che conduce al romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, dove si può constatare la crescita del fenomeno mafioso dovuto ad un’aristocrazia assenteista e a un ceto emergente avido di denaro.
Ecco ciò che Sciascia afferma:
Non c’è assolutamente alcun dubbio sulla connessione tra “Il Gattopardo”, definito “un grande romanzo pur non condividendone il conservatorismo, e la mafia. Don Calogero, sindaco e “gabelloto” del Principe Don Fabrizio, altrimenti noto come il Gattopardo, è la personificazione di quella che chiamo la nuova classe “borghese-mafiosa” che nacque subito dopo l’Unità d’Italia con l’apparente distruzione del feudalesimo siciliano. Don Calogero rappresenta una classe che era “in ascesa” e che, sotto le mentite spoglie di una specie di pseudo-aristocratico, sfortunatamente è ancora presente tra noi al giorno d’oggi.
Dal ruolo del del gabelloto, che innerva i soprusi rurali, passa poi al testo Mafia di Henner Hess (1970), di cui aveva curato l’introduzione, indicando altresì una metodologia di lavoro al fine di potere acquisire informazioni adeguate. Mutamenti, degradi, reti internazionali vengono maieuticamente estratti dall’analisi di Sciascia il quale ammette di non avere una conoscenza profonda del nuovo volto della mafia:
Mentre a Racalmuto conoscevo personalmente i capimafia, nessuno, oggi, saprebbe dove o chi siano; sono tanto invisibili quanto invulnerabili.
Su questa cruda e crudele problematica, per molti aspetti dolente, l’analisi mostra i segni di una letteratura vissuta come conoscenza e consapevolezza. L’asse portante è la “linea della palma”, cioè dei mali della Sicilia che si sono italianizzati e mondializzati, della sconfitta della ragione, della volontà di non risolvere i problemi dei siciliani (Sfortunatamente, l’Italia non è mai stata tanto antisiciliana quanto al giorno d’oggi), dell’illuminismo (la sensibilità, la vivacità, la “luminosità” della Francia del diciottesimo secolo).
Siamo dunque nelle profonde radici della formazione intellettuale di Sciascia, dove campeggia l’illuminato Manzoni.
Abbondano le considerazioni di Thomson sui suoi scritti ed egli le comunica, mostrando la sua puntuale frequentazione. Per tutto questo il libro, tradotto da Adele Maria Troisi che ha curato un’ariosa nota critica e comprendente lettere che Sciascia e Thomson si scambiaronno prima e dopo l’incontro, va letto come un bel ritratto sull’operatività artistica e civile del racalmutese, sul genere letterario del giallo, dove l’investigatore fallisce come per esempio ne Il contesto.
Si giunge sempre al fallimento della Storia che:
secondo il fosco schema degli eventi di Sciascia, da sapore manzoniano, è semplicemente un gioco perverso giocato da potenti meschini sullo sfondo di un ordine sociale immutabile.
Con questo sono appena descritti alcuni aspetti della conversazione dove il tema della sconfitta della giustizia sembra predominante unitamente al fallimento della ricerca della verità. E l’autore può parlare di uno Sciascia che ha vissuto in modo angosciante lo spettro opprimente del cattolicesimo italiano con un riferimento a Don Gaetano di Todo modo, un uomo, dice Sciascia:
che rivive tutto ciò che la Chiesa Cattolica abbia mai prodotto, culturalmente parlando. E, tuttavia, non crede effettivamente alla Chiesa, servendosene soltanto come potrebbe fare con qualsiasi altro strumento di potere.
In sostanza, la conversazione ci pone dinanzi tanti problemi del sociale, fa meditare sul complesso rapporto tra morale e rinnovamento civile, come anche sulla cultura quale strumento di conoscenza e interpretazione della realtà.
Mi piace ora affidare la conclusione di questo rapido excursus ad alcune parole di spietata attualità, dette da Sciascia:
Spero che i miei lettori più intelligenti mi considerino un uomo animato di spirito di giustizia che ha il coraggio di affermare che in Sicilia c’è la mafia, ma non tutti siamo mafiosi.
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