Una mano di troppo. ’Na mean ad trop
- Autore: Lorenzo Albry
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2023
Meun o mean, mano; tchin, cane; djalina, gallina; tchiavras, capre; seir, segale, vatchi, mucca: accompagnata dal suono esotico dell’antica lingua francoprovenzale, ecco una storia di paura, in un periodo buio, nel Piemonte profondo del Basso Medioevo.
Per una volta, l’autore di un romanzo storico ammette di non avere approfondito il periodo in cui ha collocato le vicende narrate, facendosi prendere soprattutto dall’immaginazione, dal piacere di raccontare quello che pensava-sognava e che andava appuntando da tempo. Galeotto è stato il collocamento in pensione, che ha dato a Lorenzo Albry il tempo libero per scrivere finalmente Una mano di troppo, ‘Na mean ad trop, pubblicato questa estate dall’Editrice Tipografia Baima&Ronchetti di Castellamonte-Torino (luglio 2023, collana Libri in libertà, 298 pagine).
Diversi termini francoprovenzali ricorrono in questo romanzo. È una parlata di origine protofrancese - un francese molto arcaico, primitivo - che con la langue d’oil (il francese) e la langue d’oc (il provenzale) costituisce il gruppo delle lingue neolatine galloromanze, diffuse in alcuni Dipartimenti transalpini orientali, anche nella Svizzera Romanda, in Val d’Aosta, in alcune valli del Piemonte occidentale e in due paesini in provincia di Foggia, Celle e Faeto.
Il francoprovenzale è la prima lingua imparata da Lorenzo Albry, quasi settant’anni fa.
Nato a Lanzo Torinese nel 1954, vissuto per i primi trent’anni a Pialpetta, nel comune di Groscavallo, in Val Grande di Lanzo, dove i genitori gestivano un’attività commerciale, ha lavorato per oltre quarant’anni nella Pubblica Amministrazione, presso enti pubblici e in Regione, occupandosi sempre d’agricoltura. Coniugato, padre di due figli è al suo esordio narrativo.
Il romanzo era nella sua mente da almeno dieci anni, ma non si concretizzava sulla carta, avviato e abbandonato più volte. Finalmente, la passione per la scrittura ha potuto godere della conclusione dell’attività lavorativa e gli sono bastati otto mesi di lavoro intenso sulle pagine bianche, sulle quali dice di accanirsi di getto. Immagina le scene di un film e le trasforma in un racconto, con tanta soddisfazione quando verifica che le sue pagine trasmettono qualcosa ai lettori: sentimenti, emozioni.
Confessa di fare tanta fatica nel dare al tutto un senso logico: ammette di non essere uno scrittore metodico e organizzato, nemmeno un profondo conoscitore del Medioevo, per quanto le condizioni di vita fossero probabilmente peggiori di quelle descritte, specialmente se si fa riferimento all’alimentazione, alla sicurezza e alla salute. I personaggi del racconto sono di pura fantasia, come i fatti, abbastanza cruenti ma mai come nella realtà di quegli anni. I luoghi invece sono reali, nella Val Grande di Lanzo.
Racconta i suoi territori montani, in parte sconosciuti, abbandonati, senza possibilità di recupero, per i quali si è speso, in particolare negli ultimi anni lavorativi, da amministratore dell’Unione Montana Alpi Graie.
Oltre che in francoprovenziale - un’ottantina i vocaboli citati nelle pagine - Lorenzo Albry scrive in modo aperto, semplice, sciolto e ha scelto un genere storico-giallo, che trova intrigante per il pubblico.
Il romanzo. Settembre 1358, le nuvole si addensano sui monti dell’alta Val di Lanzo, ma Nina è certa che il vento avrà la meglio sulla pioggia ed esce al pascolo con le capre della sua famiglia e del vicinato. Con lei, al solito, l’intraprendente Nerin, il cane, “lou tchin”, che a un certo punto le porta tutto contento qualcosa che ha trovato tra i sassi.
Lo stringe tra i denti e poi lo deposita tra i piedi di Anna, Annina, Nina. Una mano, mozzata di netto. Grande, appartenente di sicuro a un uomo con una striatura bruna sul palmo. Viene portata dai paesani a Bonzo e consegnata al console, rappresentante dell’autorità di Amedeo conte di Savoia.
In parallelo a questa vicenda della mano, c’è la fuga di Elena, figlia del notaio di Locana, allontanatasi da casa vestita da uomo, dopo una grave punizione subita ingiustamente dal padre (ancora soffre per le frustate, leggere, ma avvilenti). Si unisce a una famiglia di Chialamberto, in viaggio verso Albone, ma la sua fragilità muliebre rischia d’essere continuamente smascherata.
Sempre pericolosi gli spostamenti, in quei tempi e in quei luoghi, infestati da malintenzionati. A volte sembra brava gente quella incontrata lungo la strada, ma appena li superi, ti sgozzano da dietro. E poi girano i mercenari, per servizio o per conto loro, combattenti di ventura che vanno per le spicce, non esitano a rubare, devastare, violentare.
Estrema ed emozionante - anche per i lettori - l’esperienza della ragazza. Fa lega con una donna, Rosa, che sa di rimedi di unguenti, di erbe e polverine. Sulle tracce di Elena si muove il fratello Bruno e della mano si occupa il capitano Guglielmo Ettore Savant Rous di Ovigli, scelto da poco per esercitare funzioni di polizia nella Val di Lanzo.
Non dimentichiamo Nina, orfana di padre, ragazza curiosa, inarrestabile, che proprio non ci sta ad aspettare e tacere. Conduce ricerche, con l’aiuto del nonno. Del resto, alla mano mozza, ch’è già tanta roba lassù, si aggiungono misteriosi cadaveri interi.
L’autore, Lorenzo Albry, ha fatto sapere che questo romanzo avrà un seguito, ci starebbe già lavorando e visto ch’è uno scrittore molto produttivo, l’attesa non dovrebbe essere lunga.
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