Dal banditismo al brigantaggio
- Autore: Francesco Pappalardo
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2014
O brigante o emigrante: era l’umiliante alternativa che la miseria offriva ai meridionali dopo l’unità d’Italia. Perché, non anche, o insorgente o bandito? È infatti la continuità di una forma endemica di ribellismo secolare nel Meridione, che il saggista Francesco Pappalardo mette in luce nel volume “Dal banditismo al brigantaggio”, pubblicato nel giugno 2014 dal crotonese D’Ettoris Editore (pp. 210, euro 17,90). Un asse storico che passa dall’insorgenza antinapoleonica, peraltro.
Banditismo, insorgenza, brigantaggio, sono tre periodi diversi, uno successivo all’altro, protratti dal medioevo al decennio postunitario, fino alla presa di Roma. Tre forme di resistenza violenta al potere politico costituito. I banditi rubavano ai ricchi. Gli insorgenti si rivoltavano a francesi e giacobini. I briganti agivano contro i Borboni prima e contro i Piemontesi poi.
C’è da chiedersi se questi tre segmenti storici non possano essere ricondotto a unità, visto che si svolsero – in armi e quasi sempre alla macchia – nelle stesse regioni del Sud Italia peninsulare. Cerca proprio di rispondere a questa domanda il lavoro di Francesco Pappalardo, laureato in Scienze Politiche a Napoli, residente a Roma e scrittore di lungo corso di storia meridionale.
Il banditismo - deriva dal "bando", che in età medievale allontanava soggetti sgraditi dalle comunità – rappresenta per lo scrittore napoletano un ibrido caratteristico dell’ancient regime europeo. In un arco temporale che va grosso modo dalla fine del medioevo alla rivoluzione francese, sviluppa svariate modalità d’azione e raccoglie protagonisti diversi: mercenari o soldati rimasti senza lavoro, renitenti fiscali, i perdenti nei conflitti tra fazioni, fuoriusciti e nobili impoveriti.
L’insorgenza, invece, è una vera sollevazione popolare, ha un inizio e una fine (1792-1814) e mette insieme le resistenze contro la rivoluzione giacobina e contro il regime di Bonaparte in Italia e in Europa. Resta un fenomeno composito: comunità intere imbracciarono le armi per difendere la religione e i propri sovrani o per conservare privilegi o, anche, per impedire i saccheggi dell’invasore. Non mancarono conflitti municipali e scontri per il controllo delle risorse locali.
Anche il brigantaggio postunitario è una realtà complessa, in cui rientravano la fedeltà alla dinastia borbonica e la resistenza all’invasore, la delinquenza comune, ataviche tensioni sociali, l’opposizione all’invadenza del nuovo Stato unitario, la renitenza alla leva obbligatoria e l’ostilità alla fiscalità crescente.
Pappalardo tratta separatamente i tre fenomeni,
“prima di verificare, nell’intreccio di tutte le componenti - rivolta antifiscale, reazione feudale, resistenza dei ceti, sommosse contadine e criminalità organizzata - l’esistenza di un filo conduttore riconducibile all’opposizione al nascente Stato moderno”.
Mentre il banditismo è però alquanto disomogeneo, con fasi storiche, situazioni locali e contrasto contro istituzioni diverse, l’insorgenza è meno conosciuta e quindi più intrigante. È stata però oggetto di rimozione, perché impresentabile, in quanto reazione ai valori dell’illuminismo e della rivoluzione. È stata forse la prima espressione, in Italia, del conflitto tra società tradizionale e modernità politica. Testimonia, inoltre, che sul finire del 1700 la nazione italiana, sia pure divisa in numerosi Stati, aveva già un’identità religiosa e culturale, premessa indispensabile per l’unità di un popolo. Popolazioni differenti, rette da istituzioni diverse in contesti geografici ed economici non uniformi, si opposero al nemico non solo perché straniero ma soprattutto perché portatore di una concezione del mondo ostile alle proprie tradizioni religiose, culturali e politiche.
Parte cospicua del testo è occupata dal brigantaggio contro il Regno d’Italia, che l’autore chiama resistenza antiunitaria e che tuttavia non riuscì a ripetere il successo dell’armata della Santa Fede del cardinale Ruffo, l’esercito popolare che nel 1799 riportò sul trono i Borboni.
Era cambiata intanto la situazione internazionale. La Santa Alleanza si era dissolta con la Guerra di Crimea, l’Inghilterra aveva sposato la causa unitaria e il favore accordato al Piemonte da Napoleone III di Francia aveva isolato l’Austria e i Borboni, per nulla sostenuti dalla Spagna.
Peraltro, mentre i sanfedisti del 1799 affrontavano un esercito impegnato su tanti fronti, i combattenti del 1860-1870 si scontrarono con lo Stato unitario, che potè concentrare per anni forze imponenti nel Mezzogiorno. L’esercito sabaudo soffrì la tenacia dei guerriglieri, ma il rigore dello stato d’assedio, l’esercizio della giustizia sommaria, le leggi eccezionali, le repressioni indiscriminate e le delazioni stroncarono la volontà di resistenza della popolazione.
Per finire e per trarre una sintesi, sarà utile citare il sottotitolo: “La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d’Italia”. C’è tutto il senso del lavoro di Pappalardo. Intelligenti pauca, dicevano i latini: a chi sa intendere, bastano poche parole.
Dal banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d'Italia
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