In questi giorni presso il Teatro del Giglio di Lucca, in anteprima nazionale, è andato in scena con la regia di Giancarlo Nicoletti lo spettacolo 1984 tratto dal romanzo di George Orwell. L’amica Mariapia Frigerio ne parla sulle pagine del quotidiano Avvenire del 1 dicembre con l’emblematico titolo 1984, Le profezie di Orwell e la dittatura dell’algoritmo. Scrive Frigerio:
“Se Orwell pensava alle dittature del secolo scorso, oggi sappiamo che c’è una nuova forma di dittatura fatta di hi-tech, globalizzazione tradita, media e social, perché il nostro Grande Fratello è a Silicon Valley, negli Apple Store, a Guantanamo o in Irak e l’invasione della nostra sfera privata viene da un algoritmo più che da un politico vero”.
Io, di mio, aggiungerei pure il possibile abuso della cosiddetta Intelligenza Artificiale che può essere utilizzata per costruire storie verosimili nel campo dell’informazione e, ahinoi, romanzi artificiali nel campo della narrativa che potrei definire algoritmi dei sentimenti.
Opere ispirate a 1984
Nicoletti si è servito dell’adattamento dell’opera orwelliana di Robert Icke e Duncan Macmillan, già acclamato dalla critica e dal pubblico a Londra e a Broadway.
Il cinema aveva già adattato per il grande pubblico il romanzo distopico di Orwell: il regista inglese Michael Anderson nel 1956 girò Nel 2000 non sorge il sole, come fece Michael Radford con il film Nineteen Eighty-Four con un interprete del calibro di Richard Burton e la colonna sonora degli Eurythmics.
Pure il mondo musicale ha cercato di interpretare il romanzo più conosciuto, assieme a La fattoria degli animali, di Orwell: l’album Diamond Dogs di David Bowie contiene le canzoni 1984 e Big Brother. Il gruppo rock inglese dei Radiohead con il testo Karma Police si è ispirato alla Psicopolizia. Anche diversi scrittori si sono ispirati a 1984 come nel romanzo 1Q84 dello scrittore giapponese Haruki Murakami. Lo stesso fece Stephen King con il romanzo Terre desolate, con precisi riferimenti a concetti come quello del bispensiero. Nel mio piccolo pure io con il romanzo Il Regno di Nessuno e la bella Alessandra (Robin, 2016) mi sono ispirato ad Orwell e ad uno dei miei personaggi di mistici rivoluzionari – i pescatori di pesciparole - ho dato il nome di Winston Smith come il protagonista del romanzo di Orwell.
“1984” di Orwell stroncato dalla critica
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Il quinto romanzo di Orwell, centrato sulle conseguenze del totalitarismo e della manipolazione del linguaggio, fu pubblicato nel 1949 dall’editore inglese Secker & Warburg e in Italia nel 1950 da Mondadori. Gli addetti ai lavori e pure qualche informato lettore conoscono bene come in quegli anni il romanzo fu accolto dai critici e dai politici nel clima geopolitico dello stalinismo e della Guerra Fredda. L’autore prese sberle sia dai conservatori, che tentarono manipolarne il pensiero (per loro la critica alla società totalitarista di Stalin diventa la critica al comunismo intero), che dai comunisti, il cui baluardo era l’Unione Sovietica.
In Italia non fu compreso da Italo Calvino, che con un tono sprezzante lo definì un “libellista di secondo ordine” (solo dopo alcuni decenni Calvino si pentì di quel pensiero) e demonizzato come “poliziotto coloniale” e “agitprop” dal segretario del P.C.I. Palmiro Togliatti.
Rodolfo Ruocco su l’Avanti del 4 gennaio 2014 scriveva:
“Se i conservatori tentarono di manipolare il pensiero di Orwell, i comunisti ne demonizzarono la figura, com’era nel loro stile. Su Orwell l’eretico calò la mannaia della scomunica. Venne bollato come un traditore della classe operaia e della sinistra, lui che si batteva per i diritti dei lavoratori e dei diseredati in Gran Bretagna; lui che aveva imbracciato il fucile contro i fascisti del Generalissimo Franco (fu ferito gravemente in Spagna)!”.
La stroncatura più nota fu proprio quella di Palmiro Togliatti (1893-1964), soprannominato Il Migliore, più volte deputato e ministro, nonché segretario del Partito Comunista Italiano dal 1927 al 1964. Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo Di Castiglia, scrisse un articolo sulla rivista Rinascita (anno VI, n° 11- 12, novembre-dicembre 1950) dal titolo Hanno perduto la speranza, accusando l’opera di Orwell di essere una freccia all’arco sgangherato della cultura borghese, capitalistica e anticomunista. Inizia così l’articolo di Togliatti:
“Con la pubblicazione di questo racconto dell’inglese George Orwell, che si intitola «1984», la cultura borghese, capitalistica e anticomunista, dei nostri giorni, ha aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire”
e, dopo un richiamo ai romanzi di La città del sole di Tommaso Campanella, la Nuova Atlantide di Francesco Bacone e Utopia di Tommaso Moro, prosegue:
“Così siamo giunti a George Orwell e al suo scritto. Siamo giunti cioè ancora una volta al romanzo di avvenire, ma a un romanzo di avvenire che è precisamente l’opposto di quelli che furono pensati e scritti nei secoli trascorsi, nell’antichità, nel Rinascimento, ai tempi dell’illuminismo, del primo socialismo. Quelli erano la parola – o il sogno, se volete – di un mondo in cui regnava, o rinasceva, dopo secoli di oscurità, la fiducia nell’uomo, la fede nella ragione umana. Erano espressione fantastica di una grande e giustificata speranza. Questo è la parola di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna. È il punto di arrivo della sfiducia nella ragione degli uomini e nelle sorti stesse del genere umano (...) A dire il vero, qui saltano fuori anche i difetti del libro dell’Orwell. Egli presenta, sì, il quadro di un futuro catastrofico per l’umanità, ma quando cerca di dare una giustificazione della catastrofe ... rivela una totale assenza di fantasia, si riduce a ripetere i più banali argomenti della più vecchia delle polemiche contro il socialismo (...) questa non è più arte, è attività politica, è lavoro dell’«agitprop».”
Ciò che fa più rabbia nell’articolo di Togliatti è il tentativo di demonizzazione della persona, del fango che getta addosso ad Orwell:
“Eccolo, l’autore: la sua carriera si apre nella polizia imperiale inglese della Birmania, di cui è funzionario per sette anni; poi lo si incontra in altre colonie e in qualche centro di vita internazionale; scoppia la guerra di Spagna, ed eccolo in Catalogna, il funzionario della polizia inglese e, naturalmente, tra le file degli anarchici. Quali mezzi misteriosi e potenti per estendere il proprio dominio sugli uomini poteva inventare un simile tipo?”.
Tra le righe, Togliatti lo accusò addirittura di essere stato una spia e di aver fatto parte d’un complotto trockista - fascista in combutta con il futuro Caudillo:
“Il mezzo ch’egli conosce è uno solo (...) lo spionaggio, s’intende, ch’è sempre il cavallo di battaglia (...) Doveva aver davvero una grande esperienza di bastonature e torture, questo poliziotto coloniale.”.
Togliatti per onestà intellettuale avrebbe dovuto invece ricordare che Orwell, scoppiata la guerra civile spagnola, decise di andare in Spagna a combattere nelle file del Partito Operaio di Unificazione Marxista (POUM) contro il dittatore Franco e che il 20 maggio 1937 fu ferito gravemente alla gola da un cecchino franchista.
Anni dopo Pierluigi Battista sul Corriere della Sera del 29 gennaio 2017 scriveva:
«Palmiro Togliatti liquidava George Orwell con un epiteto sprezzante: “Poliziotto coloniale”. Italo Calvino, esponente di un’editoria che boicottò fino alla fine la pubblicazione di 1984 criticava il liberale e democratico Geno Pampaloni perché dava retta a George Orwell, dimostrando così di non essersi “premunito” dall’infezione di uno dei mali più tristi della nostra epoca: l’anticomunismo».
Leonardo Sciascia, al contrario di Togliatti, sul periodico politico di Palermo La Prova del 15 marzo 1950 scriveva che 1984 è “un gran racconto, vigoroso impassibile e lucido racconto” in cui si condensa con “swiftiana gelidità” un “testamento spaventoso”.
Trentatré anni dopo L’unità, con un inserto dedicato a Orwell (18 dicembre 1983), Ferdinando Adornato tentò una rilettura e un nuovo punto di vista sul pensiero orwelliano, ma le resistenze e i pregiudizi erano ancora molti. Quando uscì nelle sale italiane il film di Radford, il quotidiano l’Unità del 17 novembre 1984 gli dedicò un lungo articolo dal titolo “1984, il passato prossimo venturo” e il giornalista e critico cinematografico Alberto Crespi domandò al filosofo, teorico del pensiero debole Gianni Vattimo (1936-2023):
“Il 1984 di Orwell, il 1984 di oggi. Quali i rapporti tra la realtà e l’immaginazione? Quali i riscontri reali dell’«utopia negativa» di Orwell e della sua rappresentazione nel film di Radford?”.
Vattimo dette la seguente risposta:
“Film e romanzo mi sembrano lontani dal nostro mondo, tranne che per un particolare: l’impotenza del potere, la sua disfunzione, la sua fatiscenza. Nel film il potere cade in pezzi, come accade a volte nelle vere dittature. Mi sembra che Radford segua giustamente la moda della fantascienza stracciona, dell’utopia delle rovine, alla Blade Runner. E forse è vero che dalla dittatura ci aspettiamo più la degradazione, che non l’assoluta efficienza”.
Dunque ancora una volta Orwell straccione, Orwell libellista di secondo ordine, Orwell freccia all’arco sgangherato della cultura borghese. Allora buon pubblico allo spettacolo teatrale di Giancarlo Nicoletti dell’anno 2023.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Quando la critica stroncò “1984” di Orwell, da Calvino a Togliatti
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Le sue critiche all’hi-tech e all’intelligenza artificiale, di cui sembra conoscere poco, assomigliano in modo impressionante alle critiche mosse a 1984 di Orwell dai grandi personaggi che lei cita. Potrebbe considerarlo un complimento.