Le ali della libertà, diretto nel 1994 da Frank Darabont, è un film basato su una novella di Stephen King (L’eterna primavera della speranza, contenuta nella raccolta Stagioni diverse e pubblicata in Italia dall’editore Pickwick), ambientata in una prigione del New England molto particolare, perché i detenuti sono tutti ergastolani che si sono macchiati di gravi reati. Sono persone dunque che sopravvivono in quel carcere sapendo che non ne usciranno più.
Una pena tremenda in particolare per il protagonista (interpretato da Tim Robbins), che è stato condannato ingiustamente per un reato che non ha mai commesso.
Un giorno, proprio lui, che non ha mai rinunciato alla speranza di tornare libero, entra nell’ufficio della direzione e aprendo il microfono diffonde con un gesto gratuito ed espansivo di assoluta libertà in ogni settore del carcere la musica di un’opera di Mozart (un’aria tratta da Le nozze di Figaro).
La musica desta all’inizio stupore tra i detenuti (chi dorme, chi passeggia nel cortile, chi lavora in un giorno grigio come tanti là dentro); poi si fa silenzio e per qualche minuto ognuno di loro resta incantato, come se quella musica li portasse lontano da quel luogo dando loro le ali per volare via e tornare liberi. È un attimo, ma indimenticabile di felicità assoluta. E anche se passerà, lascerà in ciascuno di loro il sapore e il desiderio di quella libertà, che li aiuterà a non arrendersi, ad affrontare in modo diverso la vita in quel luogo.
Vale la pena ricordare le parole del protagonista:
“Ancora oggi non so che dicessero quelle donne che cantavano, e non lo voglio sapere. Ci sono cose che non devono essere spiegate. [...] Ma quelle voci si libravano nell’aria a un’altezza che nessuno di noi aveva mai osato sognare. Era come se un uccello meraviglioso fosse volato via dalla grande gabbia in cui eravamo, facendola dissolvere nell’aria, e per un brevissimo istante tutti gli uomini della prigione si sentirono liberi.”
Non credo che King o il regista abbiano pensato all’Infinito di Leopardi quando hanno girato il film, eppure l’idea che sta dietro a entrambe queste opere è identica: la speranza, il desiderio di una gioia e una libertà infinite, che ci spingono oltre le gabbie in cui specchio siamo rinchiusi dagli altri o dalla vita stessa.
L’Infinito di Leopardi
Leopardi scrive L’Infinito a Recanati, il piccolo borgo delle marche dove era nato nel 1798. La poesia è composta nel 1819, quindi il poeta era giovanissimo (aveva 21 anni), ma era già considerato un genio: conosceva il greco, il latino, l’ebraico e molte lingue moderne; lettore appassionato grazie anche alla biblioteca paterna che si trovava nel suo palazzo dove trascorreva molte ore di studio appassionato; aveva già scritto altre poesie precedentemente e si era segnalato per opere di erudizione che dimostravano la sua vasta cultura.
L’Infinito è il suo capolavoro e sarà raccolto poi con le altre poesie in un unico libro intitolato i Canti, che viene pubblicato a Napoli dove nel frattempo si era trasferito negli ultimi mesi della sua vita nel 1836.
L’occasione che ispira questo testo è molto banale, legata alle abitudini quotidiane del poeta, che era molto abitudinario e ogni giorno dopo le ore di studio in casa si concedeva una passeggiata che lo portava dal centro di Recanati su una collinetta affacciata sul paese e da cui si vedeva anche un tratto dell’adriatico.
Leopardi era molto affezionato a questo colle, come si vede dall’attacco del brano: “Sempre caro mi fu…”, cioè ho sempre amato questo colle solitario. L’aggettivo "ermo" è un latinismo e ci fa capire che questo luogo era appartato e qui il poeta poteva godere in solitudine qualche momento di quiete e rilassarsi dimenticandosi in quel silenzio di tutto ciò che lo circondava.
Non erano anni facili: il cattivo rapporto con la famiglia e con il paese natio che definisce un borgo selvaggio (ne Le ricordanze) per la ristrettezza mentale e la grettezza degli abitanti; una malattia degenerativa, la tubercolosi ossea per la quale non c’erano cure, che si era manifestata precocemente e che nel tempo lo avrebbe logorato, deformando anche il suo corpo, costretto a una vita ritirata, e portato alla morte prima dei 40 anni.
Ma Leopardi non è un pessimista come spesso è stato descritto, ha una visione realistica della sua condizione e del mondo che lo circonda, ma è anche un uomo, un giovane innamorato della vita, che non cessa mai di coltivare la speranza, di cui si sente l’eco in quasi tutti i suoi versi, anche quelli più malinconici. Certo, era anche un figlio della sua epoca, e come molti intellettuali era un ateo materialista, credeva che la vita fosse un ciclo meccanico di nascita crescita e morte, vedeva la Natura (che per lui era l’Ente creatore del cosmo e di ogni forma di vita, non credeva all’esistenza di Dio) come una sorta di madre egoista, centrata su se stessa, incurante dei bisogni delle proprie creature che pure ha generato ma abbandonandole al loro destino, alla fatica quotidiana di vivere, senza dargli alcun conforto, senza contribuire a realizzare quella felicità piena assoluta a cui gli uomini aspirano sempre in ogni momento della loro vita.
Il paradosso della vita umana per Leopardi sta proprio nella felicità che è un bisogno connaturato all’uomo. L’uomo vive per essere felice, ma la vita che gli è stata data proprio perché è per natura una vita limitata, contrassegnata dalla precarietà dalla lotta quotidiana per l’esistenza e conclusa dalla morte, costringe l’uomo a dibattersi nella precarietà nell’incertezza spesso nel dolore e a rinunciare a quell’appagamento a quella gioia assoluta che possiamo provare solo temporaneamente per un giorno, un periodo, forse un attimo, prima di ripiombare nella fatica, nella noia, nelle preoccupazioni quotidiane. Ecco perché l’uomo è perennemente insoddisfatto, imbronciato, perché aspira ad avere qualcosa che gli sfugge sempre. La vita è come una prigione, oltre quelle sbarre c’è il cielo lo spazio sconfinato, l’infinito, e per raggiungerle bisognerebbe spezzare quelle sbarre ma l’uomo per la sua limitatezza non ci riesce, non del tutto. Si possono avere solo gioie, felicità parziali, temporanee, che sono delle illusioni e che costruiamo con la nostra immaginazione.
È quello che succede nello spezzone del film che abbiamo visto: un attimo di gioia pura, che ti dà l’impressione di volare, di staccarti da tutto, in un’esistenza prevedibile, scontata, che sembra non cambiare mai. Ma quell’attimo riscatta tutto, ci fa sentire in armonia, in pace, con la natura il cosmo intero e ci fa dimenticare la nostra limitatezza.
L’infinito è tutto ciò che è illimitato. Un’aspirazione umana che sembra un desiderio irraggiungibile, giacché la vita umana è invece limitata. Leopardi non è ottimista, è risaputo; ma in nessun momento della sua vita e in alcun verso della sua poesia ha mostrato di rinunciare — non del tutto — alla speranza. Se l’ottimismo è in effetti un tratto distintivo del carattere, che ci induce a aspettarci risultati positivi da qualsivoglia esperienza; la speranza è un guardare oltre (le prigioni, i limiti, le gabbie che la natura o l’uomo stesso si costruisce intorno) nella convinzione di poter dare una forma nonostante tutto alla nostra vita, rendendo possibile ciò che non lo è.
Leopardi in questo testo, mentre siede sulla cima del colle ispirato dalla speranza e dal silenzio e dalla quiete del posto, chiude gli occhi, si abbandona alla sua immaginazione e prova a costruirselo questo infinito, prova a immaginarselo. E con le parole e la fantasia riesce a dargli forma, invitandoci a vivere con lui l’esperienza istantanea, ma straordinaria, di questo attimo di felicità.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Salendo su un colle remoto proprio sopra Recanati egli si siede di fronte a una siepe "che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude", cioè che per la sua altezza ed estensione non gli fa vedere il paesaggio sottostante. Non è un caso: non potendo osservare con la vista un paesaggio che del resto conosceva bene, il poeta è costretto a usare un’altra vista, quella dell’immaginazione, appunto.
Chiude gli occhi e immagina ("io nel pensier mi fingo") che cosa ci può essere oltre la siepe. Il colle, gli alberi e il paese scompaiono, lasciando il posto a un altro spazio e tempo diversi da quello umano, fatto di pace, di "sovrumani silenzi" e "profondissima quiete". Questi sono i tre attributi dell’infinito. In particolare, profonda come il mare, questa quiete che lo inghiotte e lo libera per un istante dal peso del corpo malato, della vita arida e mortale.
Un’esperienza sublime, che gli dona gioia, ma anche paura ("ove per poco il cor non si spaura"), tanto che subito dopo riapre gli occhi e torna alla realtà. Il solito colle, i soliti gli alberi, la siepe.
Poi arriva anche il vento ("e come il vento odo stormir tra queste fronde": non appena sento il vento stormire tra queste piante). Il rumore del vento tra gli alberi è come una musica per lui, che lo rapisce, attivando di nuovo la fantasia, che di nuovo lo porta lontano da lì, nell’Infinito, in uno spazio e tempo eterni, al di sopra della vita mortale. Eterno come la Natura di cui per un attimo il poeta si sente parte integrante, libero e sconfinato come lei.
È come un naufragio questa sensazione creata con la fantasia, infatti con la metafora del naufragio si conclude la poesia: "e il naufragar m’è dolce in questo mare". L’Infinito è come un mare, in cui per un istante, illusorio, l’uomo Leopardi si sente non estraneo all’universo ma parte di esso, in piena armonia, lontano dall’inquietudine e l’infelicità terrena.
Questo sentimento dell’infinito, illusorio ma importante, perché ci aiuta a vivere nonostante i limiti della vita, è un tema della poesia romantica. E Leopardi ce lo fa sentire nel testo usando polisillabi, parole lunghe: sovrumani; interminati; profondissima, che sembrano non finire mai, e anche il discorso, che si articola in periodi lunghi e complessi (il primo periodo comincia nel primo verso e si prolunga fino al verso 8, senza interruzioni), e nei versi che si inarcano uno nell’altro e sembrano le onde ininterrotte di un mare infinito che esiste in eterno.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Da Le ali della libertà alla poesia di Leopardi: due istantanee dall’infinito
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