Dacia Maraini (ritratta nella foto di Giuseppe Moretti ©) è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, poesie, narrazioni autobiografiche e saggi, editi da Rizzoli e tradotti in oltre venti Paesi. Nel 1990 ha vinto il premio Campiello con “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, nel 1999 il premio Strega con “Buio” e ha ricevuto il premio Campiello alla carriera nel 2012. Il suo ultimo romanzo è “Tre donne. Una storia d’amore e disamore” (Rizzoli, 2017).
Da poco è in libreria “Corpo felice. Storie di donne, rivoluzioni e un figlio che se ne va” (Rizzoli 2018, Collana “La Scala”, pp. 240, euro 18,00),
nel quale la scrittrice racconta la perdita del figlio mentre era incinta di sette mesi e l’impossibilità di diventare madre.
Quando ho perso mio figlio, con cui conversavo di notte sotto le coperte e a cui raccontavo del mondo aspettando che nascesse; quando a tradimento quel bambino con cui giocavo segretamente e che già tenevo in braccio prima ancora che avesse aperto gli occhi è morto, sono stata sul punto di morire anch’io.
Bellissime e intense le pagine nelle quali Dacia Maraini racconta di aver imposto un nome al suo “bambino fantasma”, con il quale dialoga attraverso le pagine del libro.
Mi senti, Perdu? La maternità non è solo un fatto naturale. È un modo di stare al mondo. È un valore che cambia secondo i secoli, le condizioni di vita.
Di questa esperienza e della condizione femminile, tema sempre molto caro alla grande scrittrice italiana, nata a Fiesole ma cittadina del mondo, abbiamo conversato con Dacia Maraini.
- Signora Maraini, già nel 1993 nel saggio “Un clandestino a bordo” aveva rievocato la dolorosa esperienza della perdita, poco prima della nascita, di un figlio molto desiderato. Per quale motivo ha sentito di nuovo l’urgenza di rievocare quel dolorosissimo episodio della Sua vita?
La ferita è sempre lì e non si rimargina evidentemente. Perciò torno a parlarne. Ma questa volta con più distacco e più voglia di inventare e fantasticare.
- Possiamo dire che al centro del libro c’è il mistero della vita e del “corpo felice” della donna che quella vita porta alla luce?
Il mistero sta nell’accanimento con cui la storia patriarcale ha voluto negare, separare, controllare la meravigliosa capacità delle donne di tenere in grembo una creatura vivente. I padri della Chiesa soprattutto si sono accaniti contro questa potenza, inventando addirittura una nascita alla rovescia: la donna dal corpo dell’uomo invece che il contrario. Un furto storico, non saprei come altro chiamarlo che ha pesato e condizionato il corpo delle donne e la loro consapevolezza di sé.
- Il volume è anche l’occasione per denunciare ancora una volta la condizione femminile prima del 1978 quando l’aborto era un reato, così come erano proibiti gli anticoncezionali e l’infanticidio era una pratica diffusa. Ce ne vuole parlare?
Certo, era necessario votare una legge che facesse uscire dalla clandestinità e dall’abuso l’aborto. Ma non sono fra quelli che considerano l’aborto una soluzione felice. Si tratta comunque di una violenza contro il corpo delle donne e contro un progetto di vita. Ma le proibizioni e le sanzioni non servono a niente, anzi peggiorano le cose, spingendo le donne ad abortire clandestinamente. Bisogna agire sulle alternative, sul concetto fondamentale di una maternità responsabile. Questo si può fare solo con una cultura che tenga conto delle esigenze delle donne.
Ricordiamo che fino a poco tempo fa tutte le forme di controllo della fertilità erano proibite. Per forza le donne finivano per ricorrere all’aborto. Ma nessuna donna ama abortire, lo fa per necessità. Dobbiamo costruire una cultura responsabile e consapevole. Mettendo a disposizione, anche moralmente, gli strumenti che permettano alle donne di decidere quando come vogliono fare un figlio. E poi bisogna coinvolgere anche l’uomo a fare la sua parte in un progetto esteso di genitorialità consapevole e responsabile.
- “Donne non si nasce ma si diventa”, scriveva Simone de Beauvoir nel saggio “Il secondo sesso”, considerato una delle pietre miliari del femminismo. Concorda con la riflessione della scrittrice, saggista, filosofa e femminista francese?
Sì, certo e la cito spesso nel mio libro. Si nasce esseri umani, maschi e femmine, molto più simili di quello che crediamo. Già a due anni, come scrive Elena Gianini Belotti, comincia il lavoro della società per formare la diversità: Due ruoli, due identità diverse che devono affrontare il mondo in modo diverso, ciascuno chiuso nel suo genere.
- Oggi è il 25 novembre e si celebra la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne, mentre aumentano i casi di femminicidio in Italia. Nei primi sei mesi del 2018, sono state uccise già 44 donne, il 30% in più rispetto lo stesso periodo del 2017. Sembra proprio che la strage non accenni a placarsi. Che cosa scatta nel cervello di così tanti uomini?
Qualcosa che ha fortemente a che fare con la cultura del dominio e del possesso. Per troppi secoli è stato detto agli uomini che l’amore, il matrimonio, la paternità legittimano il possesso e il dominio sulla persona più debole: moglie e figli. Quando invece la persona più debole, che sia la moglie o una figlia, decide di sfuggire a questo possesso e a questo dominio, l’uomo fragile, che identifica la sua virilità col possesso, entra in una crisi talmente grave che può trasformarsi in un assassino. Spesso accompagnato da un suicidio. Segno che veramente la novità è sconvolgente. Molti uomini, i più deboli e impauriti, non riescono ad accettare l’idea che la persona umana non si possa possedere. Il possesso è schiavitù e ci abbiamo messo secoli ma finalmente l’abbiamo abolita. Anche se continua in certi paesi a essere praticata, noi la condanniamo e nessuno può pensare che sia una forma d’amore. Quindi, ripeto: la violenza contro le donne non nasce da un istinto maschile deviato, ma da un’antica cultura che ha sempre legittimato i privilegi maschili, come il possesso e il comando all’interno della coppia.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Dacia Maraini, in libreria con "Corpo felice. Storie di donne, rivoluzioni e un figlio che se ne va"
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