Gli Xenia anticamente erano i “piccoli doni fatti agli ospiti”. Ma presso gli antichi greci Xenia designava anche il concetto sacro di ospitalità.
Eugenio Montale con le liriche di Xenia, contenute nella sezione iniziale della raccolta Satura, vuole rendere omaggio alla moglie, Drusilla, da poco scomparsa. Sono versi liberi con delle rime (avevamo/siamo, aldilà/già), delle assonanze (studiato/modularlo, riconoscimento/saperlo).
La sezione montaliana Xenia, suddivisa in due parti, è composta in totale da 28 componimenti, e questo testo Avevamo studiato per l’aldilà è il quarto.
In questa poesia abbiamo solo quattro versi senza descrizioni, né intellettualismi, che riassumono in modo mirabile la perdita di una persona cara. Vediamo insieme testo e analisi.
“Avevamo studiato per l’aldilà” di Eugenio Montale: testo
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza saperlo.
“Avevamo studiato per l’aldilà” di Eugenio Montale: analisi e commento
Avevamo studiato per l’aldilà racchiude quattro versi che sono tra i più significativi nella poesia del Novecento sul rapporto tra amore e morte. Ma a questa tematica se ne sovrappone un’altra: quella della comunione tra vivi e morti, della distinzione tra vita e morte.
Possiamo essere già morti senza saperlo, ma anche i cosiddetti morti possono essere vivi senza saperlo. Il problema è che di essere veramente vivi o morti nessuno se ne può accorgere. Potremmo addirittura pensare che ci sono delle persone morte eppure in vita, come coloro che hanno commesso atrocità, e morti sempre in vita, perché le loro opere vengono sempre ricordate nel mondo terreno. Può anche darsi che non ci sia un confine netto che divida i vivi dai morti.
Ecco perché Eugenio Montale non si pone nella posizione di Orfeo, che vuole riprendere dagli Inferi Euridice. Lui non ha certezze. Non sa dove finisca l’aldiqua e dove inizi l’aldilà. Non gli è dato conoscere chi sia veramente morto e se la vera vita sia l’aldiqua o l’aldilà. Lo stesso Montale aveva sempre scritto e dichiarato che non era mai stato certo di esistere, perché a conti fatti non sapeva quale fosse la vera esistenza. Montale è molto sintetico e mai retorico, perché non riprende il topos leopardiano della morte come liberazione degli affanni, né aspira alla morte per ricongiungersi quanto prima alla moglie.
La lirica si gioca tutta su una trovata originale dei due coniugi (un fischio, un segno di riconoscimento).
Questo escamotage era un modo per esorcizzare la morte, che avrebbe potuto separarli per sempre. Importante è la parola “riconoscimento” perché pone l’accento che nel mondo sovrasensibile, dove si suppone che non vi siano corpi ma solo anime, quel fischio sia l’unico modo per dire “sono io” e “io sono qui con te”. Però si noti anche l’ironia dei due, che scherzano sulla morte e che cercano di scacciarne la paura. Gli Xenia sono tutti brevi epigrammi. In generale l’ultima fase della poesia montaliana è più semplice da capire, ha carattere aforistico, è meno simbolica ma più gnoseologica e metafisica.
Risente in parte dell’attività giornalistica del poeta ed è una poesia più prosaica, che però grazie all’ingegno e alle intuizioni liriche montaliane ancora prosa non è. Potremmo dire che è una poesia minimalista, ridotta all’essenziale, eppure segno tangibile di genialità. La donna non viene concepita come agnizione (cioè come riconoscimento di qualcosa di più profondo, come apparizione salvifica, come presenza mitica che permette epifanie). La moglie non viene idealizzata.
Qui l’amore è maturo e si fonda su una consolidata convivenza. Drusilla Tanzi, per gli amici “La mosca” per i suoi occhiali spessi, era il perno dell’esistenza del poeta. Banalmente potremmo dire che era il suo porto sicuro, che lo riparava da mareggiate e tempeste. Nonostante i tradimenti con Clizia a lei era sempre rimasto ancorato.
Il poeta, come scrive in Ho sceso dandoti il braccio, aveva sempre saputo che:
di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
Questa poesia funge anche da ricordo, da rievocazione e psicologicamente da “oggetto transizionale” per dirla alla Winnicott, ovvero il poeta tramite la scrittura e la condivisione di alcuni aneddoti della vita coniugale si riappropria mentalmente della persona amata: come se i versi fossero delle ciocche di capelli che si tagliano ai defunti per tenerli con noi e che ce li fanno sentire vicini.
Insomma una sorta di oggetto-simbolo della memoria; con un gioco di parole potremmo affermare che Montale passa dal correlativo oggettivo al correlativo soggettivo e il soggetto in questione è la donna amata, la cui relazione viene rivissuta tramite piccoli pensieri e la ripresa di alcuni episodi della loro quotidianità.
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Trovo geniale la scelta del fischio come segnale convenzionale tra anime, un segnale che ci rimanda alla sfera della quotidianità e contiene un’accezione ironica che permea di sè il breve testo, alleggerendo il tema della morte che esso contiene.