Una nuova figura professionale si sta affacciando nel mondo dell’editoria, sono i sensitivity readers. Non si tratta propriamente di “lettori sensitivi”, come alcuni potrebbero intuire basandosi a orecchio su un’errata traduzione, ma di lettori incaricati di valutare le questioni di sensibilità suscitate da un determinato testo o manoscritto.
Queste figure professionali, nate nell’ambito editoriale anglosassone, in pratica sono incaricate di rileggere i testi passando al setaccio ogni parola alla ricerca di luoghi comuni, inesattezze, frasi offensive razziste o sessiste e - naturalmente, una volta trovate, di eliminarle.
Il lavoro dei sensitivity readers ultimamente è posto sotto i riflettori e balzato agli onori delle cronache a causa del loro operato su grandi opere ormai entrate nel canone della letteratura, quali le opere di Shakespeare, i libri per l’infanzia di Roald Dahl, la saga di James Bond di Ian Fleming e, last but not least, i gialli di Agatha Christie. Le rivisitazioni dei sensitivity readers appaiono insomma indigeste ai lettori perché tendono a modificare “opere sacre” e la voce stessa di autori entrati ormai di di diritto nell’Olimpo della letteratura. Fino a che punto un editor ha il diritto di modificare la scrittura di Agatha Christie? Con quale presupposto oggi possiamo permetterci di censurare un dramma di William Shakespeare?
La professione dei sensitivity readers, eletti come paladini in difesa delle minoranze, in realtà può essere letta come un sottoprodotto della cultura imperante del politically correct: ma fino a che punto è corretto spingerci nella rivisitazione contemporanea di un’opera? Uno scrittore non è soprattutto un figlio del proprio tempo? Modificando la scrittura di Roald Dahl o di Agatha Christie, depurandola, non si rischia di distorcere persino il pensiero dell’autore adeguandolo a una contemporaneità di fatto a lui ignota?
Cosa fanno i sensitivity readers
Innanzitutto deve essere riconosciuto che le figure dei sensitivity readers nel mondo editoriale britannico e statunitense - ma anche in quello tedesco - sono già una professione retribuita e riconosciuta.
I manoscritti delle case editrici vengono letti con attenzione da questi “attenti lettori” che hanno un ruolo distinto da quello di editor, redattori e grafici. I sensitivity readers non vanno a caccia del refuso, ma controllano che la forma del discorso non leda i diritti delle minoranze. Spesso sono gli scrittori stessi ad affidarsi a loro, specialmente per manoscritti che trattano temi più “sensibili” e prevedono la presenza di personaggi gay, trans, disabili, di colore o appartenenti a una peculiare minoranza religiosa e etnica diversa da quella dell’autore.
La necessità di questa figura professionale è nata, neanche a dirlo, dal dibattito social. Sui social network negli ultimi anni stanno proliferando polemiche su determinate citazioni tratte da romanzi e saggi: la gente è diventata all’improvviso molto suscettibile all’uso di certi termini e non è raro che un famoso scrittore del Settecento o dell’Ottocento venga improvvisamente accusato, in accesi dibattiti a colpi di commenti al vetriolo, di essere misogino o razzista. Queste polemiche sterili hanno comportato la nascita di una figura professionale incaricata di valutare le possibili conseguenze negative di determinate parole o espressioni nelle loro plurime sfumature semantiche.
Si parte dal presupposto che l’uomo e la donna cisgender bianco/a borghese non sia più il target preferenziale di riferimento e che a lungo l’editoria abbia privilegiato gli autori bianchi (sino al 2018 erano l’89%, ci dicono i dati), rappresentando le minoranze in maniera stereotipata e problematica. I sensitivity readers insomma riflettono un grande cambiamento dell’industria editoriale contemporanea ma anche, in diversa misura, una nuova prospettiva sociale.
D’improvviso è chiaro a tutti che operare sulle parole, sul corretto linguaggio, è un modo per agire anche sui pensieri delle persone, quindi attuare una rivoluzione culturale. Ma non è, in fondo, ciò che ci insegnano sin da bambini: dire “grazie”, “prego”, evitare le parolacce e non offendere mai la dignità altrui? Abbiamo davvero bisogno dei sensitivity readers? Ma, soprattutto, fino a che punto il linguaggio degli scrittori merita di essere depurato?
Sicuramente queste figure professionali nascono per un nobile intento, tuttavia la loro attività sembra creare più danni - a livello letterario, s’intende - che benefici.
Basti pensare al recente caso di Roald Dahl e agli interventi promossi dalla casa editrice Puffin Books sulle sue opere in collaborazione con Inclusive Minds, un collettivo dedicato ai libri per bambini e ragazzi. Stiamo assistendo letteralmente a una riscrittura della letteratura per l’infanzia sulla quale, anche in Italia, si sta svolgendo un massiccio lavoro di revisione a opera di editor e redattori. I libri per bambini e per ragazzi sono, statisticamente, posti sotto il mirino dei sensitivity readers perché si attribuisce a quelle opere un peculiare valore educativo. Si tratta di un eccesso di premure o di un atto dovuto?
Sensitivity readers vs lettori
L’operato dei sensitivity readers sta dividendo i lettori: c’è chi lo ritiene utile e chi lo reputa un eccesso di politicamente corretto, un atto di censura. Basta davvero eliminare la parola “negro” da un romanzo di Agatha Christie per sradicare il razzismo dal mondo? Il nostro sentire è davvero inficiato da una rappresentazione dannosa e fuorviante delle minoranze?
Ci si augura che un lettore abbia la consapevolezza e la sensibilità per comprendere che Shakespeare, Agatha Christie, Roald Dahl, Charles Dickens e molti altri erano, in primis, figli della propria epoca e che modificare le loro parole, oggi, equivale anche a snaturare il loro pensiero e demolire personaggi riuscitissimi proprio perché, in gran parte, caricaturali e basati su forti contrasti.
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Bisognerebbe valutare anzitutto l’intenzione: usando determinati termini quegli scrittori volevano davvero essere offensivi?
Con quale metro di giudizio oggi giudichiamo offensivo l’uso di una determinata parola o espressione? L’impressione è quella di vivere in una società improvvisamente molto suscettibile, in cui un improvviso tripudio di dolcezza e perbenismo (un tantino ipocrita, bisogna dirlo) ha creato molti denti cariati e dolenti.
Eliminare termini dispregiativi, razzisti o sessisti non equivale, purtroppo, a migliorare la società: creando un mondo senza spine non faremo fiorire nuove rose.
I sensitivity readers sono davvero necessari?
I sensitivity readers sono stati definiti i nuovi gatekeepers, hanno dunque il ruolo di “guardiani” non tanto dell’informazione quanto della forma espressiva letteraria. Sono nati in terra anglosassone, ma ora questa professione si sta diffondendo anche in Italia, soprattutto nell’ambito dei libri per l’infanzia, ma non è difficile immaginare che presto le loro funzioni si allargheranno alla narrativa per adulti. L’ideologia alla base di questa nuova professione editoriale è certamente promettente: più attenzione alle parole e alle loro sfumature, un linguaggio purificato che si fa specchio di un mondo più giusto gettando le basi per la sua “utopistica” costruzione. Ma smussare gli spigoli ci aiuterà a difenderci contro gli urti della vita? Un immaginario fiabesco, senza ingiustizie né storture, fatto di eufemismi e dolcezza non rischia di rendere tutti quanti più impreparati, i bambini in primis, al contatto diretto con la realtà?
Ciò che preoccupa, soprattutto, dell’attività dei sensitivity readers è la capacità di omologare un settore per natura vasto e diversificato come la letteratura: la voce autoriale rischia di essere purificata, smussata e, infine, annullata in nome di un pensiero universale che mette a tacere l’individualità in nome di una collettività idealmente “serena e pacificata”. Abbiamo davvero bisogno dei sensitivity readers? ci troviamo a domandarci. L’umanità cosiddetta evoluta del XXI secolo è davvero così sprovveduta e mancante dal punto di vista del linguaggio? Dobbiamo reimparare a comunicare dalla A alla Z?
A ben vedere il ruolo del sensitivity reader è sempre stato svolto, in misura massiccia, dall’editor o dal revisore di un determinato manoscritto. Creare una figura professionale apposita, cui è affidato il compito di valutare le “questioni di sensibilità”, non rischia di rendere tutto per l’appunto una questione di sensibilità?
Il vero dramma di questa rinnovata attenzione alle sfumature minime delle parole è che, presto, potremmo vedere offese ovunque, sberleffi e insulti in ogni dove, persino dove non ce ne sono realmente: e allora, fino a che punto è lecito intervenire? Avremo dei bei romanzi confezionati, impacchettati e perfetti, fatti solo di parole stucchevoli come caramelle al miele, dal retrogusto fastidioso e vischioso però, perché non saranno più in accordo con il sapore - spesso dolceamaro - della vita.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi sono i sensitivity readers e perché vorremmo farne a meno
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