Per capire che cos’è la sindrome di Stendhal e quali sono i soggetti che possono esserne colpiti dovremmo avventurarci nella storia della letteratura e guardare alla biografia dello scrittore francese Marie-Henri Beyle (Grenoble, 23 gennaio 1783 – Parigi, 23 marzo 1842) noto, appunto, come Stendhal.
Dalla storia della letteratura sarà opportuno, poi, passare brevemente alla psicologia perché la sindrome di Stendhal è, di fatto, un disturbo di carattere psicologico o, meglio, psicosomatico che coglie persone che si trovano in particolari situazioni.
Sarà, infine, opportuno tracciare alcuni rapidi collegamenti con altri concetti particolarmente affascinanti e importanti dell’estetica e della letteratura, anche Freud, infatti, elaborò un concetto per certi versi affine a quello della sindrome di Stendhal che molta fortuna ha avuto nella psicanalisi e in settori disciplinari liminari.
Che cos’è la sindrome di Stendhal e da cosa deriva il suo nome
Marie-Henri Beyle, francese di famiglia borghese, ebbe una adolescenza adombrata da una figura paterna avida, scaltra e anaffettiva che lo relegò presto in una profonda solitudine. È forse in questa circostanza che va individuata la scaturigine del suo amore per la letteratura e per molti altri generi di arte, come ben dimostrano i suoi esordi letterari. Affascinato dal neoclassicismo - anche l’origine dello pseudonimo Stendhal è forse da individuare nella città tedesca di Stendal, della quale era originario Johann Joachim Winckelmann - scrisse inizialmente delle biografie di Haydn, Mozart e Metastasio (1815) alle quali seguì una “Storia della pittura in Italia” (1817). L’Italia fu uno dei grandi amori di Stendhal, un luogo dove soggiornò e visse a lungo, proprio per apprezzarne meglio il patrimonio storico-artistico: oltre all’opera appena citata lo dimostra altrettanto bene il libro “Roma, Napoli, Firenze”, una raccolta di ricordi e impressioni o, meglio, un vero e proprio diario di viaggio nel Belpaese.
Sono però i romanzi di formazione - “Il rosso e il nero” (1830), “La Certosa di Parma” (1839) e “Lucien Leuwen” (incompiuto) – che segnano la maturità letteraria di Stendhal e che o fanno entrare di diritto nell’alveo dei classici della letteratura francese e mondiale. In queste opere dalla prosa essenziale Stendhal si dimostra capace di acute e approfondite analisi psicologiche dei suoi personaggi, giovani eroi romantici che aspirano alla realizzazione di sé stessi perseguendo progetti gloriosi e vivendo sentimenti tempestosi e appassionati.
Se vogliamo comprendere che cos’è la sindrome di Stendhal e quali sono le sue caratteristiche dobbiamo però fare un passo indietro e tornare a “Roma, Napoli, Firenze” (1817): è in quest’opera, infatti, che Stendhal descrive gli effetti di questa patologia psicosomatica che provò in prima persona, al cospetto delle grandiose opere di Caravaggio e di Michelangelo:
“Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere… Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e dai sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me era inaridita, camminavo temendo di cadere”.
La sindrome di Stendhal: caratteristiche psicologiche
Come ben dimostra la citazione la sindrome di Stendhal è una patologia psicosomatica che può aver luogo di fronte ad opere d’arte particolarmente evocative, scaturisce dalla loro straordinaria bellezza e può più facilmente aver luogo in spazi limitati e in luoghi chiusi: la sensazione provata è quella di un malessere diffuso, caratterizzato da palpitazioni, difficoltà respiratorie, mancamento, vertigini, talvolta, nei casi acuti, anche da ansia e da crisi di panico.
Come avvenne per lo stesso Stendhal all’interno della Basilica di Santa Croce in Firenze, il bisogno più impellente di chi è colto da questo fenomeno è quello di tornare alla realtà concreta (lo scrittore sentì il bisogno di allontanarsi dall’interno della chiesa e di uscire all’aperto) e di parlare la propria lingua. Ciò perché a livello psichico, la sindrome di Stendhal può essere assimilata a un’allucinazione che porta a sviluppare un vago ma fastidioso e onnipervasivo senso di irrealtà.
A definire e tematizzare la sindrome di Stendhal fu la psichiatra Graziella Margherini, responsabile del servizio per la salute mentale dell’Arcispedale Santa Maria Nuova di Firenze, che descrisse in maniera particolarmente analitica questa patologia nel suo libro “La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte” (1979).
Margherini si trovava di fronte turisti che erano ricoverati nell’ospedale dove era di stanza, dopo che erano usciti dagli Uffizi. Erano in genere di età compresa fra i 25 e i 40 anni, di sesso maschile, provenivano dall’Europa Occidentale o dal Nord-America, viaggiavano da soli e avevano un buon livello di istruzione. In questo modo descrive i sintomi e la fenomenologia del disturbo:
“La maggior parte dei turisti manifestavano attacchi di panico, alcuni presentavano disturbi del contenuto e della forma del pensiero con intuizioni e percezioni deliranti associate a disturbi delle senso/percezioni con allucinazioni uditive, altri ancora percepivano fenomeni illusionali e cenestofrenie; altri presentavano disturbi affettivi, con umore orientato in senso depressivo con contenuti olotimici di colpa e di rovina o, viceversa, in senso maniacale con euforia e manifestazioni di estasi. Altri ancora manifestavano sintomi riferibili agli attuali criteri diagnostici per il disturbo di panico, con crisi acute di ansia libera o situazionale; ed infine, alcuni, oltre ad un senso di profondo turbamento, percepivano la città incombente, quasi nemica, come se si sentisse perseguitato non già da un’entità, ma dalla città stessa”.
Interessanti anche le note sulla eziopatogenesi che Margherini fornisce nella stessa opera:
“l’analisi della sindrome di Stendhal ha messo in evidenza le complesse interazioni psicosomatiche che possono attivarsi in alcuni individui, con particolari condizioni psichiche predisponenti, quando il contesto ambientale favorisce gli aspetti di sradicamento rispetto alle proprie abitudini di vita. La Bellezza e l’opera d’arte sono in grado di colpire gli stati profondi della mente del fruitore e di far ritornare a galla situazioni e strutture che normalmente sono rimosse”.
Fenomeni illusionali, disturbi sensoriali, percezioni deliranti, scompensi umorali, un diffuso senso di occlusione e di turbamento provato in un contesto estraneo, sono questi gli effetti dell’azione di opere d’arte eccezionali sugli stati profondi della mente, al quale si associa un ritorno del rimosso. Teniamo a mente quest’ultima acquisizione perché ci permetterà di comprendere concetti contigui alla sindrome di Stendhal.
La sindrome di Stendhal, la psicanalisi e le arti
Proprio Margherini – quando parla di profondo turbamento e di ritorno del rimosso - traccia una chiara connessione tra la sindrome di Stendhal e il concetto di perturbante tematizzato da Sigmund Freud o, meglio, interpreta la stessa sindrome di Stendhal come un evento perturbante, una esemplificazione del perturbante stesso.
Per Freud perturbante è das un-heimliche, ovvero ciò che non è (più) familiare (dalla radice Heim, casa, da cui anche Heimat, patria), più precisamente ciò che avvertiamo come familiare ed estraneo allo stesso tempo e che, quindi, genera spaesamento, turbamento, paura. Perturbante è, in altri termini, ciò che potrebbe essere tenuto nascosto (nell’inconscio) e che, invece, all’improvviso riaffiora, dando luogo a una sensazione sgradevole e destabilizzante.
Freud utilizzò questo concetto non solo nella teoria psicanalitica ma anche in ambito estetico (perturbanti sono, nell’arte, topoi come il doppio, il sosia, il movimento di esseri robotici o inanimati, i cyborg, la sepoltura dei vivi, il ritorno dei morti, i mutanti, le ripetizioni ossessive) e ciò fa ben comprendere perché Margherini abbia fatto ricorso a questo concetto per spiegare la sindrome di Stendhal.
Il turbamento vissuto nella sindrome di Stendhal andrebbe inteso come un’esperienza di ritorno del rimosso, una condizione dove una particolare opera d’arte, associata a fattori ambientali concomitanti, riesce a riattivare ricordi tendenzialmente spiacevoli (complessi infantili, fantasie edipiche, episodi traumatici) relegati nell’inconscio e a farci accedere a dimensioni remote della nostra mente, che raramente frequentiamo.
In letteratura concetti contigui a quelli di sindrome di Stendhal e di perturbante sono quelli di sublime e di viaggio sentimentale.
La sindrome di Stendhal ha avuto anche effetti ulteriori sulle arti: ispirò il film omonimo di Dario Argento (1996) dove la giovane poliziotta Anna Manni, interpretata dalla figlia Asia, sviene all’interno degli Uffizi, soggiogata dalla bellezza di un’opera d’arte.
Anche Francesco Guccini, ne L’orizzonte di K.D. (L’isola non trovata, 1970) mette in musica e parole questa stessa condizione destabilizzante e straniante.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cos’è la Sindrome di Stendhal?
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Psicologia Filosofia e Sociologia Sigmund Freud Storia della letteratura Stendhal Significato di parole, proverbi e modi di dire
Lascia il tuo commento