Spesso un editor non troppo ferrato, per quanto grammaticalmente erudito, rischia di correggere arbitrariamente il testo di un autore, mozzando ogni afflato di originalità e in questo modo lo appiattisce e lo banalizza. Di volta in volta bisogna invece decidere quale sia il vocabolo più adatto, anche esplorando la sfera semantica in cui il testo si tuffa. Il mondo della filologia ci viene in soccorso e ci spiega che, nella maggior parte dei casi, la parola meno usuale è la migliore (lectio difficilior potior). Un concetto che può apparire contrario a ogni logica e che tento di illustrare alla famosa nonna a cui si spiega tutto, dalla fisica quantica alla filosofia del diritto, e anche a quel famigerato editor livellatore.
Un esempio: I segni dell’antica fiamma o I segni della vecchia fiamma?
Lo spunto per questa piccola lezione di filologia spicciola da impartire alla nonna in questo tempo di formazione a distanza a tappeto mi è venuto da un episodio in apparenza banale. Sul momento non ci ho fatto molto caso, poi però, rimuginandoci sopra, ne ho tratta per me stessa una lezione, che voglio regalare, oltre che alla suddetta ava che simboleggia il discente più ostico da erudire, a tutti quelli che hanno l’ingrato compito di dover "migliorare" un manoscritto da pubblicare.
Tempo fa ebbi l’occasione di supervisionare l’attività di un editor neoassunto e notai che costui aveva modificato il titolo del capitolo di un romanzo, correggendo "I segni dell’antica fiamma" con "I segni della vecchia fiamma".
L’editor, probabilmente, era all’oscuro di due dei più noti passi della Divina Commedia, ovvero Purgatorio XXX, 48 ("conosco i segni de l’antica fiamma" ispirato ai versi dell’Eneide di Virgilio "agnosco veteris vestigia flammae"), cui il titolo faceva non troppo velato riferimento, e Inferno XXVI, 85 "lo maggior corno de la fiamma antica".
In qualche modo, perciò, quel correttore credeva di far bene emendando l’espressione per lui assolutamente non evocativa e soprattutto obsoleta con quella più di uso comune, vale a dire "vecchia fiamma", metafora morta che tutti usiamo per indicare un ex innamorato, tanto morta che si è posata anche sulle corolle dei social.
La lectio difficilior potior
"Antica" sostituito con "vecchia" rappresenta un buon esempio per parlare di quella che nella filologia si definisce lectio difficilior potior (lett. "la lezione più difficile è la più forte"), una tecnica che i filologi alessandrini, studiosi che nel periodo ellenistico ebbero il delicato e ingrato compito di ricostruzione critica del testo dei poemi omerici, già conoscevano e applicavano. In pratica, quando confrontando due o più papiri dello stesso testo notavano che uno offriva la variante di un termine più raro, solitamente lo sceglievano, nella convinzione che si trattasse del vocabolo originale, non contaminato dal cervello e dalla mano del copista.
Chi doveva ricopiare pagine e pagine di libri manoscritti, infatti, quando l’unica fotocopia era la mano umana, era portato, nelle lunghe ore di un’operazione estenuante e noiosa, a disseminare sulla copia errori di vario tipo. Rielaborando dunque, nella labilità della memoria, la frase letta da ritrascrivere, quell’amanuense a volte si trovava a sostituire un termine difficile con una parola che gli suonava più familiare, dunque facilior, più facile, ma frutto di un errore umano.
Un altro errore tipico
Uno sbaglio quindi, quella parola appiattita e di più frequente utilizzo, proprio come il saut du même au même ("salto dallo stesso allo stesso"), errore che di certo è capitato anche a noi studenti universitari degli anni Novanta quando, non essendoci ancora la possibilità di far foto ai quaderni con l’I-Phone, ricopiavamo gli appunti di un compagno. Nella trascrizione, magari abbiamo tralasciato le parole incluse tra due termini uguali, saltando dallo stesso allo stesso.
Di solito è proprio esaminando e confrontando tra loro tutti questi errori dei copisti e degli amanuensi che gli studiosi riescono a ricostruire la mamma di tutti i manoscritti, inesorabilmente perduta, ovvero l’archetipo, contenente un testo che si avvicini il più possibile a quello originale. Ma, in tema di filologia, non voglio mettere troppa carne al fuoco, per usare un’altra metafora morta e sepolta. Magari di tutto questo parleremo ancora, seppur in altra sede.
In conclusione: normalizzare non significa correggere
Tornando alla nostra teoria della lectio difficilior potior, questa venne ripresa dagli studiosi di epoche più moderne e usata nella ricostruzione di importanti testi, tra cui quelli biblici.
Tornando al nostro esempio meno illustre, la lectio facilior (forma più banale) "vecchia fiamma" del moderno ma degno di attenzione manoscritto, avvelena e imbastardisce il titolo in questione, lo trasforma da un raffinato e colto strumento evocativo di alta letteratura al rango di una chiacchierata da balcone a balcone, o da WhatsApp a WhatsApp. E dimostra che non sempre normalizzare significa correggere.
Ho invitato perciò il correttore a ripristinare il testo originale e mi sono sentita un po’ come quei filologi classici, intenti a ricostruire le parole di antichi poeti.
Concludo consigliando un libro che affronta l’argomento di cui ho parlato in maniera un po’ più seria e approfondita: Nigel G. Wilson, Leighton D. Reynolds, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, Editrice Antenore.
Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall'antichità ai tempi moderni, Edizione Roughtcut
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La filologia chiarita alla famosa nonna a cui si spiega tutto
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