Il 1968 fu l’anno delle rivoluzioni, delle contestazioni, degli stravolgimenti. Fu anche l’anno delle missioni spaziali, in cui l’Uomo rivolgeva lo sguardo allo spazio non per contemplarne l’infinità, ma spinto da una brama di conquista. La Luna cessava di essere un sogno, una poesia o una promessa, e diventava una meta raggiungibile, anche se oscura.
Persino il poeta premio Nobel Eugenio Montale, in quel periodo di frenetica corsa allo spazio, scelse di rivolgere lo sguardo alla Luna; ma lo fece, ovviamente, a modo suo, quindi ribaltando ogni prospettiva, immaginando di osservare la terra dallo spazio. Da quella contemplazione nacque una poesia, Fine del ’68, che in un certo senso anticipava il futuro allunaggio che sarebbe avvenuto nel luglio del 1969, sancendo la fine di un mondo e l’inizio di una nuova epoca.
Lo spazio all’improvviso cessava di essere un mistero, una dimensione inconoscibile e inesplorata e il vero mistero per l’uomo, dunque, restava la Terra, il “pianeta umano” per eccellenza che proprio gli esseri umani avevano reso inabitabile e appariva loro più sconosciuto del vasto spazio siderale.
Montale scrisse la poesia Fine del ’68 in occasione del Capodanno, contrapponendo all’allegria spensierata del giorno di festa la malinconia e la sconsolata mestizia di chi non si aspetta più nulla di nuovo dalla vita.
Ciò che il poeta annuncia in questi versi, contenuti nell’ultima raccolta Satura (1971), non è un nuovo inizio, ma l’avvento di una realtà invivibile in cui è racchiusa tutta la sua audace critica alla società contemporanea.
L’autore probabilmente fu ispirato da uno scatto fotografico irripetibile. Il 24 Dicembre 1968, pochi minuti dopo le 10:30 del mattino, l’Apollo 8 terminava di orbitare attorno alla luna e all’equipaggio fu possibile scorgere, per la prima volta, la Terra. Fu William “Bill” Anders a scattare la prima fotografia della Terra vista dallo Spazio, la intitolò Earthrise, letteralmente “Il Sorgere della Terra”. Mai prima di allora il nostro pianeta era stato mostrato, a colori, dalla prospettiva di un altro corpo celeste. Quella foto ne ridimensionò l’importanza e svelò la piccolezza dell’Uomo al cospetto dell’Universo. Forse Montale fu ammaliato da quello scatto, tanto da trarne ispirazione per la sua poesia.
Fine del ’68 sarebbe apparsa per la prima volta in calce un elzeviro del Corriere della Sera, intitolato “Variazioni”. La data di quell’edizione era il 12 gennaio 1969: l’anno della conquista della luna era già cominciato.
“Fine del ’68” di Eugenio Montale: testo
Ho contemplato dalla luna, o quasi,
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi o arcane. Dentro c’è anche l’uomo,
ed io tra questi. E tutto è molto strano.
Tra poche ore sarà notte e l’anno
finirà tra esplosioni di spumanti
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.
“Fine del ’68” di Eugenio Montale: analisi e commento
Fine del ’68 è una delle poesie che meglio si rende portavoce del tono di fondo della raccolta dell’ultimo Montale, Satura, testimoniando l’ironico distacco del poeta dalla vita. Mentre l’umanità intera guardava alla Luna con un misto di rapimento e speranza, ecco che lui immagina il contrario: cioè di guardare dalla Luna - all’epoca ancora ignota - la Terra. Ciò che vede non è per nulla consolante: non è che un “pianeta modesto” infatti, che contiene un’accozzaglia di saperi perlopiù sconosciuti e una bizzarra umanità, che ignora persino sé stessa.
Ecco che, mentre illustri scienziati e pensatori nell’Era spaziale credevano di avere in mano la chiave del segreto dell’universo, Montale rivela invece che “tutto è molto strano” e che il grande, l’eterno mistero rimane la Terra e, soprattutto, la vita umana. Il nodo cruciale di questo mistero il poeta lo individua nell’allegria di Capodanno, dove la folla si congratula e gioisce beata per l’anno che finisce, incurante della furia dei propri festeggiamenti. Ci saranno petardi ed esplosioni, forse anche morti e feriti, presagisce Montale: ma questo a chi festeggia non importa. Ed è proprio nelle ultime righe che il poeta pone l’eterno mistero insoluto dell’essere umano: la morte e la dissoluzione di tutte le cose, di cui nessuno davvero si cura, preferendo la realtà futile e transitoria delle cose apparenti. Nel riferimento alle bombe possiamo cogliere una metafora, una sinistra allusione alla guerra. La folla tuttavia si disinteressa della morte del singolo, preferisce crogiolarsi nella sua beata indifferenza.
Come nella celeberrima Spesso il male di vivere ho incontrato ritorna un tema caro a Montale, quello dell’Indifferenza che stavolta però non è “divina”, ma umana e proprio in virtù di questo è ancora più atroce, sintomo di un “male del secolo”, una malattia sociale - l’individualismo e l’alienazione - che prolifera ancora oggi.
La “fine del mondo” che prefigurava Eugenio Montale non era che una metafora - trasposta e figurata - dell’incomunicabilità, che oggi sta avvelenando le relazioni umane, amplificata dalle tecnologie che dovrebbero connetterci e invece ci rendono sempre più distanti ed estranei, meno empatici e solidali, più individualisti.
“Se uno muore non importa a nessuno”, concludeva il poeta, “purché sia sconosciuto e lontano”. In questi ultimi laconici versi Montale aveva individuato il fulcro della società di massa, ovvero l’indifferenza che si propaga ancora oggi in questo nostro mondo devastato da guerre che ci limitiamo a guardare dallo schermo di un televisore o di un telefono, come una realtà che appartiene ad altri.
Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto.
Non qui, appunto, dove noi stiamo. La Luna narrata da Montale non è un corpo celeste, ma una prospettiva distorta, “un sogno per chi non ha sogni”, nient’altro che la distanza capace di farci cogliere, come in un riflesso, le imperfezioni e gli errori del nostro mondo.
In quei rivoluzionari anni Sessanta Eugenio Montale aveva scritto numerosi articoli contro la società di massa, la tecnologia sempre più invasiva, il capitalismo imperante e ora la poesia si fa veicolo della sua visione. Attraverso il simbolo della Luna - così pervasivo in quell’anno di continue missioni spaziali - viene messo in discussione il nostro sguardo focalizzato unicamente sulla realtà che vediamo, che percepiamo, ignorando tutto il resto. Possiamo leggere Fine del ’68 anche come un rimprovero che Montale rivolgeva alla propria epoca, persa dietro la sfrenata corsa allo Spazio: che ce ne facciamo della Luna, sembrava dire il poeta, se ancora non riusciamo a risolvere i problemi della Terra?
La conquista della Luna, quell’indimenticabile 20 luglio 1969, in quella fine d’anno era ancora un miraggio lontano, eppure già futuribile; ben presto anche il satellite terrestre, che viveva di luce riflessa, sarebbe stato violato dall’avvento dell’uomo.
In questi versi Eugenio Montale cercava di preservare la purezza incontaminata della Luna, la sua verginità non ancora intaccata dalla smania umana di dominio, di conquista, di potere e di privilegio. La Luna era ancora il regno di Astolfo, dove poter recuperare il senno perduto degli uomini. Montale non poteva che prefigurare la fine del mondo mentre il 1968 stava per concludersi, cedendo il passo a una nuova era in cui la brama di conquista dell’Uomo non avrebbe più avuto limiti, nemmeno l’ostacolo della Luna.
Il guaio è che tutte le profezie di Montale si sono avverate; “tutto è molto strano”, oggi come ieri, non siamo diventati migliori. Se l’umanità potesse osservare sé stessa dalla Luna proverebbe un irrevocabile moto di pietà; scoprirebbe che conoscere il grande mistero dello spazio non ci ha salvato dal nostro insanabile egoismo. Il poeta lo sapeva, per questo prendeva le distanze dagli uomini e cercava rifugio sulla Luna, consapevole che quel lusso gli sarebbe stato concesso ancora per poco. Il 20 luglio del 1969 il primo uomo avrebbe messo piede sulla Luna compiendo un “grande passo per l’umanità”, ma infrangendone per sempre il sogno.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Fine del ’68”: la contemplazione della luna nella poesia di Eugenio Montale
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