George Berkeley ritratto da John Smibert (1730) Galleria Nazionale dei Ritratti di Londra © Public Domain
Il 14 gennaio 1753 moriva a Oxford il filosofo e teologo irlandese George Berkeley. La filosofia di Berkeley giunge alla singolare posizione dell’immaterialismo, animata dall’intima necessità di contrastare un ateismo che trovava le sue origini nel materialismo e che nel Settecento conquistava consapevolezza e consensi crescenti.
Terzo illustre esponente dell’empirismo, insieme a Locke e Hume, Berkeley elaborò una filosofia estremamente originale, che pur ponendo la sensazione alla base della nostra conoscenza, arriva a negare la materia come realtà autonoma.
Oltre che brillante filosofo, George Berkeley fu teologo, ecclesiastico e uomo del suo tempo: la sua vita è contrassegnata da scelte che rivelano tutta la sincerità della sua fede e il suo pensiero, ricco di suggestioni, anticipa le teorie di Mach, Bohr e Einstein e si ritrova anche in una pellicola che ha fatto epoca, come Matrix.
La vita e le opere di George Berkeley
Nato nella contea irlandese del Kilkenny, dal ramo cadetto di una famiglia nobile, George Berkeley (12 marzo 1685 – 20 febbraio 1753) studiò al Trinity College di Dublino, dove iniziò la sua carriera come docente di greco.
Pubblicò molto giovane alcune tra le sue opere principali come: il Saggio di una nuova teoria della visione (1709), il Trattato sui principi della conoscenza umana (1710) e i Dialoghi tra Hylas e Philonous (1713).
Dopo un periodo in cui ricoprì diversi incarichi ecclesiastici, insegnò, viaggiò in Europa e soggiornò a Londra, dove frequentò i membri più brillanti e influenti della società, scelse di evangelizzare i nativi americani delle isole Bermuda. Tale progetto naufragò perché Berkeley non ricevette i fondi che gli erano stati promessi; egli tuttavia rimase nel Rhode Island per circa tre anni e qui compose l’Alcifrone (1732).
Nell’ultima parte della sua vita fu vescovo di Cloyne, in Irlanda, dove si dedicò ad aiutare le sue genti, afflitte da varie epidemie.
La teoria della conoscenza di Berkeley
Anche Berkeley, come Locke, ritiene che la nostra conoscenza sia conoscenza di idee, ossia di contenuti mentali e non di oggetti o di fatti. Le idee si distinguono, innanzitutto, dalla loro origine:
- se essa è esterna derivano dai sensi, e sono quindi sensazioni;
- se essa è interna, allora sono operazioni della nostra mente;
Già questo assunto appare molto radicale perché fa coincidere, in buona parte, le idee con le sensazioni. Ancor più rivoluzionarie sono, però, le conseguenze che ne derivano. Gli oggetti, intanto, sarebbero solo delle combinazioni costanti di idee che coesistono: la mela che ho appena mangiato, ad esempio, sarebbe la combinazione (dell’idea) di un certo colore, di una certa forma, di una certa consistenza, di un certo odore.
Non solo, Berkeley critica anche quelle che Locke chiamava idee generali o astratte, ossia l’idea di mela, di uomo, di cane, quindi l’idea non di un singolo ente esistente ma di una classe di enti o oggetti. Se le idee derivano dalle sensazioni, infatti, dobbiamo ammettere che non percepiamo mai la mela ma sempre e solo una mela specifica; qualsiasi sensazione è singolare e generale. Pertanto, le idee astratte sono illusorie e pericolose perché ci portano a creare delle realtà (le cosiddette sostanze) che esisterebbero al di là delle nostre sensazioni.
Quando diciamo che “la mela è un frutto” di cosa stiamo parlando, allora? Come farà, poi, anche Hume, Berkeley afferma che l’idea astratta o generale è in realtà una idea singolare che noi usiamo per rappresentare tutte quelle idee che le somigliano. Quell’idea singolare, quella specifica mela, allora, funge da simbolo di tutte le mele. Si tratta di un chiaro nominalismo, dove tutta la nostra conoscenza consiste di sensazioni e l’unico criterio per dire che una cosa esiste è che venga percepita.
Non solo Berkeley nega anche la distinzione lockiana tra:
- qualità primarie, ossia le caratteristiche quantificabili, matematizzabili, ossia l’estensione, la forma, il moto, la quiete, la solidità, l’impenetrabilità, che sarebbero oggettive, ossia inerenti all’oggetto percepito e quindi le medesime per tutti;
- qualità secondarie, ossia caratteristiche come il colore, il sapore, il gusto, il suono, che sarebbero soggettive, perché dipendenti dal soggetto che percepisce e, quindi, variabili, da uomo a uomo;
Ora Berkeley nota come le qualità primarie vengano sempre percepite insieme alle qualità secondarie: se provassimo, per un attimo, a scindere, ad esempio, l’estensione dal colore di un oggetto, ci renderemo facilmente conto che ciò non è possibile: l’estensione, la forma e il moto esistono sempre solo nella nostra mente, proprio come le qualità secondarie, e quindi, non ha senso differenziarle e affermare che sono proprie dell’oggetto.
Ciò anche perché, per Berkeley, è la stessa nozione di sostanza materiale ad essere fallace e illusoria: se la nostra è conoscenza di idee e le nostre idee derivano dalle sensazioni, queste ultime non ci assicurano che esistano le cose fuori dalla mente, ossia cose che non vengono percepite e sono simili a quelle percepite. In buona sostanza la nostra conoscenza si limita al mentale e ai suoi contenuti e anche se ammettessimo, con i materialisti, che esistono dei corpi esterni materiali ciò non servirebbe a nulla perché gli stessi materialisti sarebbero incapaci di spiegare come quei corpi agiscano sullo spirito e possano imprimere una qualsiasi idea in esso.
L’immaterialismo di Berkeley: esse est percipi
Berkeley giunge così alla sua dottrina più peculiare. Egli, innanzitutto, ammette l’esistenza di uno spirito, o anima, o mente: si tratta di qualcosa di completamente diverso dalla idee, che esistono in essa. L’esistenza delle idee, inoltre, e proprio per questo, consiste nel loro essere percepite dallo spirito o anima: come recita il celebre motto che riassume questa filosofia esse est percipi, l’essere è essere percepiti o, meglio, ciò che esiste è solo ciò che viene percepito.
Berkeley sta affermando che le idee possono esistere solo in una mente che le percepisce e solo tale sensazione è ciò che esiste mentre tutto ciò che noi riteniamo materiale e separato dalla mente è in realtà un’illusione. Come il filosofo spiega in un passo emblematico:
“per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta delle cose che non pensano, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualche esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono […] tutti quei corpi insomma che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro esse consiste nel venir percepiti o conosciuti”
È il celebre immaterialismo di Berkeley, un idealismo soggettivo che nasce con la chiara finalità di contrastare il materialismo che andava diffondendosi nel Settecento. Già Hobbes aveva affermato che tutto era corpo e materia ma anche Newton ammetteva l’oggettività dello spazio e quindi la reale esistenza della materia estesa. Si tratta di posizioni inaccettabili per Berkeley perché costituiscono il retroterra teorico dell’ateismo, come di lì a poco ben dimostreranno illuministi radicali come d’Holbach o Laplace.
Da dove arrivano allora le nostre sensazioni se la realtà esterna non esiste? Le idee esistono nello spirito quindi devono avere una causa altrettanto spirituale, che non è lo spirito stesso ma Dio.
Le idee delle “cose reali” sono prodotte nei nostri sensi da Dio e quando non sono percepite da noi, continuano ad essere percepite da Dio, quindi, per il principio sopra, le cose che comunemente consideriamo reali continuano ad esistere.
Similmente le leggi di natura ossia le leggi che regolano i fenomeni del mondo fisico, sono regole fisse e metodi costanti con i quali Dio produce in noi le idee.
Le idee propriamente dette (come l’idea generale di mela) sono, invece, elaborate da noi ma sono solo immagini delle “cose reali”: Berkeley pone questa distinzione per garantire che realtà e fantasia rimangano due domini distinti e che le idee di un essere umano non finiscano sullo stesso piano dei sogni, dei miraggi o delle elucubrazioni di un folle.
Come ben dimostra il pensiero di Berkeley e il suo immaterialismo, le speculazioni della filosofia, con la loro visionarietà, riescono ad anticipare anche grandi successi cinematografici, come Matrix dove tutta la realtà non è altro che una serie di stimoli dati al nostro cervello da una macchina.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi è George Berkeley, il filosofo dell’immaterialismo alla base di Matrix
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