Giacomo Leopardi e la cultura inglese
- Autore: Silvia Girometti
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
Per dare subito sostanza a quello che Giacomo Leopardi scriveva a Pietro Giordani nel marzo del 1817, c’è tutta l’amarezza del giovane che vive recluso nella grandissima biblioteca paterna dove trascorre quasi tutto il tempo.
Il sottotesto implicito della lettera è che Leopardi avverte la necessità di lasciare il “natio borgo selvaggio” di Recanati per conoscere almeno un “pezzetto di mondo”.
La terra presa in considerazione è l’Inghilterra, dove le idee di filosofi e letterati hanno molte affinità con le pagine dell’opera più autobiografica di Leopardi: lo Zibaldone. Ebbene sì, se i Canti sono un capolavoro poetico, lo Zibaldone leopardiano è filosofia applicata, con vere e proprie suggestioni e descrizioni del proprio “io interiore.”
I saggi alla Montaigne, dove il foro interiore è inizio e fine, la delusione cocente di viaggi mai fatti e vissuti, la lista disordinata di libri letti, alcuni dei quali restano come calepini notturni.
Questo in sostanza il contenuto del bellissimo saggio di Silvia Girometti dal titolo Giacomo Leopardi e la cultura inglese (Oligo editore, 2024).
Continuiamo con altre frasi dell’autore presenti nella lettera già citata a Giordani:
Tutto è morte, tutto è insensataggine e stupidità...(...)...Le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due solo inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch’ella è fatta anche per li cittadini e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? Nessuno. Mai.
La studiosa Girometti inserisce i riferimenti alla cultura inglese di cui si hanno testimonianze ne Lo Zibaldone e, in misura minore, ne Le Operette morali. Leopardi sapeva leggere l’inglese e quindi ne scrive.
Chiaramente la lingua inglese parlata esisteva solo nella scelta di replicare a sé stesso e il poeta era più avveduto di quanto pensassero gli abitanti di Recanati. E in ogni caso, la genialità del poeta arrivava a conclusioni che erano proprie della cultura inglese e se la base del sapere avvicinava Giacomo a suo padre Monaldo, il fascino di Madame de Staël fece del Romanticismo una base universale; ma Leopardi predilesse la ragione, sempre e comunque.
Gli scritti di Ossian e gli studi su Burke furono per Leopardi i primi passi verso una visione più larga della vita dove c’era posto anche per chi scriveva romanzi, anche se il nume tutelare del Poeta fu il filosofo John Locke.
Nella Inghilterra del XVII, tra rivoluzioni e guerre intestine, due uomini di cultura inglese, Hobbes e Locke, furono conosciuti per le loro capacità intellettuali.
Se Locke credeva che tutto è materia, ma anche ragione, e nell’idea di dare potere agli uomini tutti, partendo dal popolo inglese, di non lasciare la politica nelle mani di un solo uomo che avrebbe potuto sbagliare, portando verso di sé rovina e distruzione. D’altra parte Hobbes ne il libro dal titolo Il Leviatano non riconosce nella moltitudine la possibilità di poter governare con efficacia.
Tutti gli uomini dovrebbero dare un pezzo della loro determinazione, tale da rendere “un solo uomo”, capace di tenere le fila di una nazione complessa. Ma l’idea di un solo uomo angoscia Leopardi che è profondamente fedele alle assemblee, a persone illuminate che possono cambiare ruolo, durante il loro periodo politico.
Un “uomo solo al comando” può portare verso una monarchia assoluta. Ma Leopardi aveva già la sua consapevolezza da anni, che nessun sistema politico può mitigare.
Lo teorizza in questo libro che è Lo Zibaldone, che finalmente ora ha il posto che merita tra le produzioni letterarie dell’autore che scrive:
La natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie...(...)...nessuna ragione si troverà chr le tolga il principio della Infelicità.
Tanta luce negativa, nel corpo e nel cervello del poeta, che assisteva a questo vuoto di senso quasi con rassegnazione, come una persona che non meritava l’amore di nessuno.
Il saggio di Girometti narra le influenze letterarie che Leopardi mutuò da poeti inglesi. Ad esempio, nel Canto notturno ci sono affinità con vari autori.
Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, una poesia complessa e bellissima, presenta delle affinità con Ossian, Young e Shelley. Nelle traduzioni tutto appare più complicato, perché chi traduce hai i suoi codici e segni di riferimento.
Chiaramente, nella parte finale del saggio, Girometti rintraccia alcune affinità tra le poesie di Shelley e gli scritti di Giacomo Leopardi.
A volte i rimandi sono labili, altre volte sembra ci sia stata una pressa tra quello che scrive il poeta di Recanati e lo scrittore e poeta inglese, tanto che l’autrice scrive:
Se sia maggiore il debito contratto da Leopardi verso la cultura inglese e viceversa: la grandezza e l’originalità leopardiane renderebbe comunque vana qualsiasi interrogativo a riguardo.
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