Cosa pensava Salvatore Quasimodo della poesia? Il poeta ermetico di Ed è subito sera dedicò numerosi saggi alla riflessione sul valore dell’arte e della lingua, soprattutto negli anni del secondo dopoguerra quando iniziò a percepire con maggiore intensità la funzione civile della poesia che intendeva legata anche a un fattore di contingenza storica.
La riflessione poetica di Salvatore Quasimodo
Il primo discorso dal titolo La poesia contemporanea risale proprio al 1946, seguito nello stesso anno da L’uomo e la poesia e, nel 1950, da Una poetica. Tentava di ragionare della sua arte e di non limitarsi soltanto a comporre versi.
A risvegliare il suo acume di critico fu la partecipazione alla Resistenza italiana; in seguito a quel momento storico, di rivoluzione e di lotta, Quasimodo comprese che si stava sviluppando l’esigenza di una poesia nuova che non fosse più passiva, ma attiva. In questo momento abbiamo il primo cambiamento nella poetica dell’autore siciliano, originario di Modica: da poeta ermetico a poeta civile. L’infuriare della guerra, la devastazione che ne consegue fa percepire tutta l’urgenza intellettuale di ricostruzione della società: il poeta non può più stare recluso nella propria torre d’avorio, è chiamato ad agire. Nasce così la raccolta Giorno dopo giorno (1946), in cui è contenuta la poesia contro la guerra Uomo del mio tempo. Il nuovo Quasimodo attribuisce alla poesia una valore “sociale”, comprende l’urgenza della parola di dire come annota nel suo testo critico:
La poesia italiana, dopo il ‘45, è di natura corale, nella sua specie; scorre per larghi ritmi, parla del mondo reale con parole comuni; talvolta presume all’epica.
La nuova stagione poetica di Quasimodo, considerato il padre dell’Ermetismo, è annunciata da queste riflessioni che si fanno sentinella della sua volontà di squarciare il silenzio. Il medesimo discorso sulla poesia sarà ripreso - e ampliato - in occasione del Nobel. Pure in questa occasione l’autore siciliano torna a ribadire la poesia come risveglio, in risposta alla distruzione portata dalla guerra. Come testimoniano anche i versi di Il mio paese è l’Italia, serviva una voce poetica che facesse da collante, che riuscisse a unire nonostante venisse spesso ignorata:
Dopo il ribollire della morte anche i principi morali vengono messi in discussione e le prove della religione anche: i letterati appesi agli esiti privati delle loro minute estetiche vengono staccati dalla inquieta presenza della poesia. Il poeta, dalla notte, cioè dalla solitudine, trova il suo giorno e inaugura un diario mortale per gli inerti; il paesaggio oscuro cede al dialogo. Il politico e gli alessandrini con le corazze dei simboli e delle purezze mistiche fingono di ignorare il poeta. È una storia che si ripete come il canto del gallo, anzi come il terzo canto del gallo.
Il “discorso sulla poesia” di Salvatore Quasimodo
Nel 1959 Salvatore Quasimodo fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione:
Per la sua poesia lirica che con fuoco classico esprime l’esperienza tragica nella vita dei nostri tempi.
Fu un Nobel discusso, soprattutto dagli intellettuali italiani contemporanei a Quasimodo che criticavano il suo stile ermetico. Era il quarto autore del nostro Paese a ricevere il Nobel, dopo Grazia Deledda, Pirandello e Carducci. Lui accolse il premio con piglio battagliero, in un’intervista affermò che era un premio che andava oltre il valore letterario e gli restituiva fiducia nelle sorti della civiltà.
Per l’occasione tenne un discorso che è anche una formidabile lectio di poetica in cui immergeva la poesia nel contesto storico del proprio tempo, istituendo un parallelismo tra il ruolo del poeta e quello del politico, ponendosi domande capitali: il poeta oggi è libero?
Nella parte conclusiva del lungo discorso - che per ragioni di spazio non riportiamo nella sua interezza - Quasimodo rifletteva sul degrado della cultura nella società a lui contemporanea. Già nel lontano 1959 intuiva che la cultura, il ruolo del poeta, erano minacciati dall’avvento della società di massa, da radio e televisione che rompevano l’unità delle arti. Rivendicava la necessità del poeta di parlare al dramma e alla coscienza dell’uomo.
Nella solitudine della figura del poeta, Salvatore Quasimodo rivendicava una condizione di privilegio. Non poteva immaginare che, presto, quel “muro di odio” metaforico lo avrebbero alzato anche contro di lui, condannandolo a una parentesi di oblio, nonostante il prestigio del riconoscimento ottenuto.
Il poeta è solo: il muro di odio si alza intorno a lui con le pietre lanciate dalle compagnie di ventura letterarie. Da questo muro il poeta considera il mondo, e senza andare per le piazze come gli aedi o nel mondo mondano come i letterati, proprio da quella torre d’avorio, cosi cara ai seviziatori dell’anima romantica, arriva in mezzo al popolo, non solo nei desideri del suo sentimento, ma anche nei suoi gelosi pensieri politici.
Eppure, in questo discorso, Salvatore Quasimodo era quanto mai lontano dall’oscurità audace, forse ritenuta pretenziosa, dell’Ermetismo: rompeva il silenzio, rivendicando il compito politico e civile della poesia. La poesia è etica e anche impegno sociale.
Dalla perfetta resa estetica, visiva e fonetica della solitudine esistenziale in Ed è subito sera, ai versi battaglieri di denuncia di Alle fronde dei salici, la poesia di Quasimodo ha due volti e il suo mutamento risiede nella riflessione costante che l’autore accompagnò ai suoi versi.
Salvatore Quasimodo non si limitò a “fare poesia”, ricercò la funzione della poesia, la indagò e, infine, trovò la sua risposta: “nelle cetre che oscillavano lievi al triste vento”, un’immagine dopotutto crepuscolare, che conservava la propria sottile valenza ermetica.
Il vero punto di svolta era dato dal passaggio, sostanziale, dall’io al noi. La voce si faceva corale, resistenziale, non respingeva l’umano, ma lo accoglieva.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il discorso sulla poesia di Salvatore Quasimodo al Nobel: da poeta ermetico a poeta civile
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