Il mito di Lucrezia è diventato, nel tempo, l’atto d’accusa letterario contro lo stupro e la violenza sulle donne. Lucrezia rappresenta la matrona esemplare, il simbolo della pudicitia, come i romani chiamavano la “fedeltà coniugale”.
La prima narrazione risale a Tito Livio nei libri 57-58 del suo capolavoro, Ab urbe condita, ma la trama fu poi rielaborata nel tempo in chiave letteraria anche dal poeta latino Ovidio, giungendo all’apoteosi nell’opera di Shakespeare, Lo stupro di Lucrezia, composta nel 1594 per il Duca di Southampton.
Anche in arte il mito della matrona romana è stato immortalato in un noto dipinto di Tiziano, Tarquinio e Lucrezia, risalente al 1571, ora conservato presso il Fitzwilliam Museum di Cambridge, in Inghilterra. Il pittore italiano, esponente di spicco della Scuola veneziana, colse il momento di maggiore pathos della storia, ovvero lo stupro di Lucrezia da parte di Tarquinio Sesto, e si focalizzò su quello, anziché sulle sue conseguenze come aveva fatto sino ad allora gran parte della letteratura a riguardo, prima di Shakespeare.
Una rappresentazione più moderna della matrona romana la troviamo nei quadri che Artemisia Gentileschi le ha dedicato: in tutta la serie di dipinti dedicati a Lucrezia, Artemisia la raffigura sempre nel momento antecedente al suicidio. Con grande sagacia, la pittrice aveva intuito che era quello il vero punto focale della storia: non la morte di Lucrezia, ma la violenza subita da Tarquinio - nella quale probabilmente la stessa Gentileschi coglieva degli echi autobiografici. Guardando Lucrezia come donna, Artemisia Gentileschi la svincolava del mito e si rispecchiava in lei: lo sguardo femminile, sempre più acuto, restituiva così a Lucrezia la dignità che le era stata negata dalla leggenda.
Le contaminazioni e i rifacimenti della storia di Lucrezia, nella letteratura come nell’arte, sono indice di un cambiamento culturale importante, che merita di essere analizzato.
Scopriamo la vera storia della donna all’origine della Repubblica.
Il mito di Lucrezia e l’origine della Repubblica
La prima attestazione del mito di Lucrezia la troviamo nel racconto dello storico romano Tito Livio, scritto tra il 27 a.C. e il 14 d.C..
Tutto, nella narrazione liviana, ha inizio in una fredda notte di febbraio da una scommessa. Nell’accampamento di soldati, nei pressi di Ardea, gli uomini giurano sull’inattaccabile fedeltà della propria sposa. A Tarquinio Collatino, un nobile appartenente alla famiglia del re, viene quindi la sciagurata idea di mettere gli altri alla prova: dimostriamo la fedeltà delle nostre mogli cogliendole di sorpresa, presentiamoci nelle nostre case all’improvviso per vedere con i nostri occhi la prova della loro pudicitia. Tarquinio Collatino certo non poteva immaginare le terribili conseguenze di questa sua trovata goliardica, ispirata forse dal troppo vino e da una vaga ebbrezza. Qui viene fatto per la prima volta il nome di Lucrezia, la moglie di Collatino: il marito si dice disposto a giurare, mettendo la mano sul fuoco, sulla fedeltà della propria sposa. Così il gruppo parte, i soldati montano a cavallo e si dirigono alla volta di Roma per concorrere a questa sorta di “gara delle mogli”. Tra loro c’è anche Sesto Tarquinio, il secondo protagonista della nostra storia, un giovane senza scrupoli, figlio del noto Superbo, re di Roma.
Arrivati nella capitale i soldati non credono ai propri occhi: le porte della reggia sono aperte e le donne appaiono impegnate in lauti banchetti dove sgorga vino a fiumi (il vino era proibito alle donne nell’Antica Roma, si credeva facilitasse la lussuria, Ndr), nessuna sembra pensare al proprio marito impegnato al fronte.
A fronte di questo spettacolo nessun soldato può dunque provare la virtù della propria consorte; a fare la differenza è Tarquinio Collatino che, scortando i soldati nel suo piccolo regno di Collazia, dimostra la fedeltà della sua Lucrezia. La donna, infatti, nel cuore della notte appare impegnata a tessere insieme alle sue ancelle. Lucrezia ha dunque vinto la gara; ma non sa che, proprio a causa di questo, la sua sorte è segnata.
Collatino decidere di tenere i commilitoni a cena a casa sua per festeggiare la vittoria della scommessa - forse lo fa anche per gongolare un poco di più e sollazzarsi nel senso di rivincita, mostrando a tutti la sua “virtuosa Lucrezia”, ma proprio in questo consiste il suo errore. Tarquinio Sesto mette gli occhi sulla bellezza della donna e non può fare a meno di desiderarla, mentre i soldati, ben pasciuti e con le pance piene, ritornano all’accampamento di Ardea, l’uomo inizia a tramare il proprio diabolico piano.
All’alba del giorno seguente, Tarquinio Sesto - il figlio del Re - si ripresenterà alla porta della dimora di Lucrezia. Lei sarà sorpresa nel vederlo solo, ma comunque lo accoglierà in casa come compagno d’arme del marito e gli riserverà tutti gli onori destinati a un ospite. Calata la sera lo scorterà nella sua stanza, convinta che la faccenda sia conclusa. Non è così; infatti Sesto Tarquinio non ha intenzione di dormire, una volta sguainata la spada che porta con sé, si reca nella stanza da letto di Lucrezia e la aggredisce. Dinnanzi alle suppliche della donna che gli chiede di fermarsi, dapprima Sesto la blandisce, poi le promette onori e favori, infine diventa violento; ma Lucrezia, dalla matrona esemplare che è, pare disposta a morire pur di non macchiarsi del peccato di adulterio. Allora Sesto Tarquinio decide di corromperla con l’astuzia: le mostra di aver portato con sé un servo, così, se lei non si concederà a lui, li ucciderà entrambi e mostrerà ai posteri il disonore di cui si era macchiata Lucrezia tradendo il marito con un plebeo. Dinnanzi alla vista dello schiavo - la tradizione vuole che fosse africano, un etiope - il disonore è più forte della vergogna e, pur di non essere macchiata di una menzogna infamante come un delitto, Lucrezia decide di soccombere e cede alla violenza di Tarquinio. La narrazione di Livio qui si interrompe con una pudica cesura, lasciando calare un velo su quanto accadde di vergognoso e indicibile nella stanza da letto di Lucrezia, ma poi riprende per narrarne le conseguenze.
Il giorno successivo, quando il suo aguzzino se n’è andato soddisfatto nella sua libidine, Lucrezia fa chiamare il padre e il marito e riferisce loro l’accaduto. Il nome di Sesto Tarquinio lo pronuncia una volta sola, tanto basta a identificarlo per sempre. Dopodiché Lucrezia - che già nella narrazione di Livio parla di sé in terza persona, come a tramandare la sua memoria ai posteri - afferma che:
“Il suo corpo è stato violato, ma la sua anima è pura”
In questa visione troviamo anche il significato che gli antichi romani davano all’adulterium (non c’era distinzione tra adulterio e stupro, ma l’adulterio in ogni caso riguardava una donna sposata), ovvero una contaminazione, si credeva che il seme maschile contaminasse il sangue della donna. Secondo la concezione vigente il sangue della donna doveva mantenersi puro, perché in esso si generava il nuovo nato: se avveniva invece una contaminazione, la donna veniva meno non solo al suo dovere di moglie, ma anche a quello di madre.
Dunque, per dare prova della propria moralità incorrotta, terminato il discorso ormai divenuto exemplum, estrae il pugnale nascosto e si suicida dinnanzi agli occhi sgomenti del padre e dello sposo. La morte di Lucrezia provocherà la vendetta che condurrà al colpo di Stato. Si stabilirà, infatti, che nessun discendente dei Tarquini potrà essere re di Roma. La ribellione riuscirà a scacciare il Re dalla Urbe. Il suicidio di Lucrezia, il suo atto di ribellione allo stupro subito, è la ragione all’origine della Repubblica romana.
Lucrezia nel racconto di Tito Livio
Il racconto di Tito Livio - a differenza di gran parte delle narrazioni di Ab urbe condita - non si basa su un fatto storico realmente accaduto, ma si nutre di leggenda. Ricordiamo che, nella concezione liviana, la scrittura storiografica doveva fornire un insegnamento morale. Il mito di Lucrezia, fondamento per l’istituzione della Roma repubblicana, quindi doveva rappresentare l’exemplum.
A partire da Romolo e Remo, i fatti salienti della storia di Roma si fondano sul mito. Lucrezia, nello specifico, doveva rappresentare la pudicitia intesa come virtù esclusivamente femminile: secondo la concezione antica infatti l’uomo poteva dimostrare il valore in battaglia, come soldato o condottiero, mentre alla donna non era dato modo di realizzarsi se non all’interno delle mura domestiche, come moglie fedele e virtuosa. Fondando la Repubblica sulla storia di Lucrezia, Livio dava una base narrativa anche ai valori del mos maiorum e intrecciava narrazione storica, etica e morale.
Non c’è nulla che possa andare bene per una donna che ha perduto la pudicizia.
Queste sono le ultime parole pronunciate da Lucrezia, prima di darsi la morte attraverso il pugnale. La matrona romana non dedica le sue ultime parole al padre o allo sposo, ma parla in terza persona come sé stesse tramandando un insegnamento morale e - tra le righe - possiamo cogliere l’invito a seguirla nella sua azione virtuosa. La storia di Lucrezia, dunque, non può essere altro che leggenda perché si fondava, intenzionalmente, su un sistema di valori. Il testo di Tito di Livio non può essere in alcun modo scardinato da quel contesto e da quei valori: Lucrezia doveva uccidersi per tutelare la sua virtù, non c’era altra fine possibile.
Interessante notare, invece, come la narrazione del mito di Lucrezia si sia modificata attraverso i secoli attestando, di fatto, un cambiamento culturale. Da exemplum di donna virtuosa, Lucrezia è diventata il simbolo della denuncia dello stupro e della lotta contro la violenza sulle donne.
Un primo cambiamento nella narrazione del mito lo notiamo già in Sant’Agostino, nel 354 d.C., dunque moltissimi anni dopo l’attestazione liviana, che invece afferma ne La città di Dio che Lucrezia non doveva uccidersi, in quanto non era stata lei a commettere la colpa.
Lucrezia nel poema di Ovidio
Anche il poeta latino Ovidio avrebbe raccontato il mito di Lucrezia, adottando, però, una prospettiva rovesciata. Nei Fasti, Ovidio avrebbe ripreso il racconto di Tito Livio focalizzandosi proprio sulla parte taciuta dallo storico romano. Laddove Livio stende un velo, omettendo la parte indicibile dell’eros, ecco che Ovidio lo solleva.
Nel suo poema il poeta latino si sofferma sul tema del desiderio: mette in luce il corpo bellissimo di Lucrezia e la libidine di Tarquinio Sesto.
Il giovane figlio del re frattanto si accende di folle ardore,
e diviene furioso preso da cieca passione.
Lo affascina la bellezza, e il niveo colore, e i capelli biondi,
e quella grazia che in lei era priva di qualsiasi artificio;
lo affascinano le parole, e la voce, e il saperla incorruttibile;
e quanto minore è la speranza, tanto più egli la desidera.
Nel testo ovidiano è inserita l’analisi psicologica dei personaggi, che in Tito Livio è assente. Ovidio invece fa emergere il desiderio sfrenato di Tarquinio e il senso di colpa provato da Lucrezia. Anziché dire al padre e al marito ad alta voce la violenza subita, la Lucrezia ovidiana sceglie la via del silenzio: “Ella tace a lungo”, troviamo scritto nel poema ovidiano. Solo dopo essere stata incalzata e pregata dal padre e dal marito, si decide, infine, a rivelare la verità. La Lucrezia di Ovidio, a differenza dell’eroina liviana, è oppressa da un senso di vergogna. Il finale, naturalmente, è lo stesso: ma qui ci troviamo dinnanzi una Lucrezia dolente e sofferente che, nel darsi la morte, non pronuncia parole dal valore morale per i posteri, ma si rivolge contro sé stessa, sancendo la propria condanna per l’onore perduto.
A ben vedere la narrazione ovidiana, benché per certi versi allusiva e decisamente più scabrosa, è più aderente a una presunta “realtà dei fatti” e alla psicologia umana.
Lo stupro di Lucrezia in Shakespeare
Un’ultima interessante prospettiva letteraria sulla storia di Lucrezia ci è data da William Shakespeare. Nel 1594 il Bardo compose Lo stupro di Lucrezia, incisivo già nel titolo, dedicando il poema in pentametri giambici a Henry Wriothesley, duca di Southampton.
La storia shakespeariana, lo capiamo subito, non è un exempla, ma un dramma nel pieno senso del termine. Fu proprio il destino tragico di Lucrezia, donna virtuosa, ad attrarre il drammaturgo inglese che colse in lei il perfetto prototipo di “eroina tragica”.
Lucrezia, in questo senso, sembra essere la versione lirica della Giulietta shakespeariana: la tragedia Romeo e Giulietta fu infatti scritta nell’anno successivo, il 1595.
Shakespeare, con accenti tragici, dà parola direttamente a Lucrezia che, nella conclusione, pronuncia un lungo monologo. Il suo ragionare ricorda la sentenza amletica: mi è più cara l’anima o il corpo? Anche lei sta meditando sulla morte, proprio come Amleto nel celebre brano Essere o non essere, questo è il dilemma.
M’era più cara l’anima od il corpo,
quand’esso puro e l’altra era divina?
Quale più amare quando l’uno e l’altra
serbavo per il cielo e Collatino?
Ciò che interessava a Shakespeare della storia di Lucrezia non era tanto il fondamento storiografico o morale, ma il dilemma che proponeva, la scissione tra etica e passione insita nella storia. Ciò che il drammaturgo inglese intendeva rappresentare ed esprimere era la furia delle passioni, taciuta in Tito Livio: si ha quindi, proprio come avvenuto in Ovidio, la trasformazione di Lucrezia, da donna casta e virtuosa, in donna di carne e sangue, infine viene posto l’accento sulla sua angoscia, sulla vergogna da lei provata in seguito alla violenza subita. Tito Livio taceva le passioni, mentre Shakespeare le enfatizza e tramite il suo monologo mette in luce - sino a esasperarle - le conseguenze psicologiche delle stupro sulla vittima: rabbia, senso di colpa, vergogna, disperazione.
Una visione estremamente moderna quella di Shakespeare, non c’è che dire: trasforma una storia esemplare di pudicitia nel lamento di una donna violata.
L’enfasi, sin dal titolo del suo poemetto, non viene posta sul mito o sulla leggenda ma sulla violenza subita, ovvero lo stupro. Laddove Tito Livio faceva di Lucrezia un’eroina virtuosa, Shakespeare le riconsegna il suo status di vittima: le cose accadono indipendentemente da lei, la sua reazione, in realtà, è la conseguenza nefasta del crimine cui lei non può opporsi. Lo stupro di Lucrezia metteva in evidenza, con straordinaria sagacia per l’epoca in cui fu scritto, le conseguenze della violenza sulle donne. Il Bardo analizza la tragedia dal punto di vista di entrambi i protagonisti, narrandoci la libidine irrefrenabile di Tarquinio Sesto (che da sé si accusa ma non si trattiene) e anche la vergogna provata dalla matrona romana violata: permette così ai personaggi di raccontarsi oltre la storia. Le conseguenze ne Lo stupro di Lucrezia sono diverse da quelle narrate da Livio: lo storico si concentrava, infine, sull’avvento della Repubblica (ogni evento cardine della storia romana doveva, evidentemente, nascere da un sacrificio di sangue), mentre il drammaturgo inglese rievoca l’orrore di quanto accaduto.
William Shakespeare dà voce a chi la violenza la subisce e, così facendo, fa del mito di Lucrezia una tragedia moderna, dal valore ancora strettamente attuale.
Il mito di Lucrezia non ha mai smesso di parlare agli uomini attraverso i secoli, acquisendo tuttavia una valenza morale diversa da quella originaria. Oggi Lucrezia non celebra più la pudicitia come virtù, ma è divenuta l’emblema di una cultura che intende combattere lo stupro e la violenza sulle donne.
L’ultima domanda che ci rimane da porci, a fronte di questa analisi comparata, è: come sarebbe raccontato il mito di Lucrezia oggi? Quale punto di vista adotteremmo per narrare questa storia antica eppure, a tutti gli effetti, eternamente contemporanea?
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito di Lucrezia narrato da Tito Livio, Ovidio e Shakespeare
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