Imre Kertész a quindici anni fu deportato nel campo di sterminio di Auschwitz. La sua storia avrebbe potuto perdersi nel vento insieme a milioni di altre vite “fuoriuscite dal camino” nel fumo nero che saliva lento al cielo nei freddi giorni d’inverno. La sorte, però, gli riservò un destino diverso: lui sarebbe sopravvissuto e avrebbe trasformato la “parola” in “testimonianza”.
Nel 1945, dopo la liberazione da parte degli Alleati, Imre Kertész tornò in patria, in Ungheria. Tutto ciò che gli restava ormai erano le parole. Iniziò a lavorare come giornalista per un quotidiano di Budapest; ma non ebbe fortuna. Due anni dopo, quando il giornale divenne un organo del Partito comunista, Kertész fu licenziato. Ancora una volta dovette reinventarsi attraverso le parole.
Iniziò a scrivere un libro che iniziava con questa frase:
Oggi non sono andato a scuola.
Era l’incipit di Sorstalanság, tradotto in italiano come Essere senza destino, uno dei libri più belli sull’Olocausto.
Imre Kertész avrebbe impiegato oltre tredici anni a finire quel libro e, in seguito, avrebbe faticato a trovare una casa editrice disposta a pubblicarlo. Il destino tuttavia segue strade imprevedibili e così, cinquantotto anni dopo aver varcato i cancelli di Auschwitz, Imre Kertész si trovò sul palco dell’Accademia di Svezia a ritirare il Premio Nobel per la Letteratura.
Il più prestigioso riconoscimento mondiale gli fu conferito in virtù della sua scrittura:
che sostiene la fragile esperienza dell’individuo contro la barbarica arbitrarietà della storia.
Non era più tornato ad Auschwitz, ma quel solo anno trascorso all’interno del campo di sterminio aveva cambiato per sempre la sua vita. In seguito, dopo la vittoria del Nobel, affermò che quello era il prezzo che aveva pagato per diventare scrittore.
Imre Kertész: la vita
Nacque il 9 novembre 1929 a Budapest, in Ungheria, in una famiglia di ebrei non praticanti di condizione economica agiata. I genitori di Kertész si separarono quando lui aveva appena cinque anni e lui venne mandato a studiare in un collegio privato.
La sua non era una famiglia intellettuale, ma Imre Kertész dimostrò sin dall’infanzia una passione per la scrittura. All’età di sei anni, con grande stupore dei suoi genitori, si fece regalare un diario. Gli fu regalato un diario così bello che Imre era dispiaciuto all’idea di scriverci sopra, per paura di rovinarlo. Disse di aver iniziato a scrivere e poi a correggere quanto aveva scritto, con il risultato di convincersi infine che “si può scrivere soltanto editando”. Quando iniziò le scuole medie, nel 1940, la Seconda guerra mondiale era alle porte e l’antisemitismo si stava già affermando in Ungheria. Visse gli anni scolastici con ansia e un forte senso di esclusione, sentendo sulla propria pelle la discriminazione subita. Non aveva ancora compiuto quindici anni, nel 1944, quando i soldati nazisti lo prelevarono per portarlo nel campo di concentramento di Auschwitz. Nelle sue testimonianze, Imre disse di non essersi reso conto di quanto stava accadendo, che tutto era molto confuso. Fu abbastanza accorto, tuttavia, da mentire sull’età: dichiarò di avere sedici anni - e così gli fu risparmiata la sorte delle camere a gas.
Dopo un anno ad Auschwitz fu trasferito a Buchenwald, in Germania: si trovava lì l’11 aprile 1945, quando arrivarono gli americani a liberare il campo. Imre Kertész si salvò; ma nessuno dei suoi familiari era sopravvissuto.
Ritornò quindi nella sua città natale, Budapest, dove concluse gli studi e iniziò a lavorare come giornalista. In Ungheria, tuttavia, in quegli anni si stava affermando il regima stanlinista. Kertész venne di nuovo preso di mira e discriminato, in quanto apparteneva a una famiglia benestante. Quando il giornale per cui lavorava divenne un organo del Partito comunista, Imre fu licenziato. Dovette reinventarsi facendo traduzioni e altri lavoretti. Fu così che si ritrovò a scrivere un diario, proprio come quando era bambino e temeva di sciupare le pagine con le sue parole impacciate, confuse, sbagliate. Riuscì, però, a trovare le parole giuste, perché tutto quello che gli serviva era trovare una voce - e alla fine la voce venne.
La scrittura di Imre Kertész
Imre raccontò di aver capito all’improvviso di “essere uno scrittore”, mentre camminava per strada. Aveva ventiquattro anni e non aveva ancora scritto niente, se non piccole bozze, frammenti di appunti. Fu in quel periodo che un amico lo coinvolse nella redazione di operette; Kertész aveva bisogno di soldi e, del resto, era bravo a scrivere dialoghi, così accettò. Per anni scrisse libretti d’opera, mentre lavorava in segreto a quello che sarebbe stato il suo romanzo Essere senza destino. In un’intervista dichiarò che l’incipit della storia gli venne per una frase banale, pronunciata per caso: fu quella frase a dargli la voce di bambino con cui doveva essere narrata la storia. Dichiarò sempre che non si trattava di un libro autobiografico, ma di aver scelto la voce narrante di un bambino di proposito perché è la voce più sincera.
Un bambino quando racconta, racconta tutto.
E la sua storia non ammetteva omissioni. Per anni Imre Kertész scrisse per vivere, redigendo o editando testi pubblicitari, traduzioni, testi minori, operette, coltivando in segreto la sua vocazione di scrittore. Avrebbe dato alle stampe il suo romanzo nel 1975.
Essere senza destino non ebbe successo in Ungheria, passò inosservato. Solo negli anni Novanta, quando fu riscoperto da degli editori tedeschi, Essere senza destino divenne un caso internazionale. Imre Kertész conobbe il successo, ma in fondo al cuore sarebbe sempre rimasto:
Uno scrittore ungherese mediocre, ignorato e frainteso.
Quando ritirò il Premio Nobel presso l’Accademia di Svezia, nel 2002, dichiarò di svegliarsi con un senso di depressione e nausea ogni mattina e di non riuscire a descrivere le cose come avrebbe voluto. In particolare affermò lo stretto parallelismo tra il nazismo e lo stalinismo che opprimeva l’Ungheria.
Imre Kertész avrebbe scritto per il resto della sua vita. Tra le sue ultime opere ricordiamo il suo romanzo più autobiografico Dossier K.; Kaddish per il bambino non nato e la raccolta di saggi Il secolo infelice, edite in Italia da Feltrinelli. Morì a Budapest il 31 marzo 2016, all’età di 87 anni.
“Essere senza destino”, il libro capolavoro di Kertész
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Il libro capolavoro di Imre Kertész racconta la storia di Gyurka, un ragazzo di nemmeno quindici anni che viene deportato ad Auschwitz. La narrazione è come una cronaca, scandita da periodi brevi, da un lessico semplice che richiama l’espressività propria di un bambino. Tutto ciò che accade, sottolinea Kertész, accade in maniera “naturale”, poiché quello che è accaduto a lui ad Auschwitz sarebbe potuto accadere a chiunque.
Lo scrittore ungherese non dà mai un giudizio in merito all’Olocausto né esprime una condanna decisiva, si limita a raccontare una storia con un lessico semplice, pulito e la certezza che:
Le vittime del Male non avrebbero potuto esprimersi che con un linguaggio esso stesso dichiarativo e ordinario.
Durante tutta la sua vita Imre Kertész ha sempre sostenuto che l’Olocausto non si è concluso, ma continua a consumarsi ogni giorno.
La serenità con cui Kertész narra uno dei periodi più bui della storia ci fa riflettere. Il suo grande talento è stato quello di riuscire a raccontare un’immane tragedia senza forzarne la drammaticità, ma donando ai fatti lo svolgersi narrativo di chi li osserva semplicemente mentre accadono e cerca di dar loro un senso. Aveva sperimentato l’orrore, ma il tempo non si era fermato: Imre Kertész si rifiutò sempre categoricamente di usare l’espressione “nuova vita”, per lui non c’era stato un punto di rottura, era sempre la sua vita che continuava.
Nell’ultima pagina del libro Essere senza destino lo scrittore ungherese, sopravvissuto all’Olocausto, afferma che:
La felicità mi aspetta come una trappola inevitabile. Perché persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi è Imre Kertész, lo scrittore che scampò ad Auschwitz e vinse il Nobel
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