Erica Arosio e Giorgio Maimone, oltre ad aver scritto da soli molti libri, hanno lavorato molto spesso insieme.
Erica Arosio, del 1954, milanese, ha collaborato per anni come giornalista per la rivista "Gioia". Esperta di cinema, ha collaborato con le sua cultura vastissima di cinema a Radio Popolare. Ha scritto una biografia su Marylin Monroe (Feltrinelli, con DVD). Giorgio Maimone, nato nel 1953, milanese, è stato caporedattore del “Sole 24 ore” per venti anni e ha partecipato come autore a programmi Mediaset.
Insieme hanno iniziato la lunga e fortunata serie delle indagini di Greta e Marlon.
Il primo libro, Vertigine, esce per Baldini & Castoldi editore nel 2013. Con gli stessi personaggi esce Non mi dire chi sei (2016), Cinemascope (2018), Jukebox (2019), tutti pubblicati per Tea editore.
Nel 2022 esce Macerie, per Mursia, ed è su questo ultimo libro che è incentrata l’intervista a due voci.
- Questo libro bellissimo, a mio avviso, che va oltre la letteratura di genere, stupisce per la profonda conoscenza della città di Milano e la sua ricostruzione dopo il 1945. Chi è tra voi due l’esperto di storia milanese? Sono citate strade famose, ma il valore aggiunto sono anche gli scrittori non citati, ma che trovo sottotraccia. Un nome per tutti: Giovanni Testori.
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Giorgio: Ci fa enormemente piacere che tu citi Testori, anche perché io con Testori ho avuto l’onore di lavorare. Intendiamoci: io facevo il facchino e l’animatore teatrale e lui il drammaturgo, ma il teatro era lo stesso, il Pier Lombardo (che sarebbe poi diventato Franco Parenti) di Milano. Correva la seconda metà degli anni ’70 e Testori era già un mito, era approdato da poco sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, succedendo a Pier Paolo Pasolini. Ma già prima aveva scritto libri che sarebbero diventati pietre miliari come Il ponte della Ghisolfa, La Gilda del Mac Mahon e Il Fabbricone, che hanno senz’altro influito sul nostro scrivere. Sono di sicuro un appassionato di questa città: “Milano per me è una lunga canzone d’amore”.
Erica: amo moltissimo Milano, ci sono nata e cresciuta e continuerò a viverci per scelta convinta. Ho assistito alle glorie e alle cadute, ma la mia città ha sempre saputo rialzarsi. Mi piace tanto la Milano post Expo, con la sua atmosfera internazionale e il suo essere l’unica città davvero europea d’Italia. Una metropoli accogliente e riconoscente, di cui è importante conoscere la storia. Io e Giorgio ci impegniamo per conservarne la memoria, raccontandola nei nostri libri, cercando di evitare la nostalgia, ma concedendoci qualche affettuosa madeleine.
- Per i due protagonisti principali, Marlon e Greta, come vi siete divisi i "compiti"? Anche qui non vi limitate ai caratteri, ma fate una distinzione sostanziale tra i due. Perché avete avuto la bella idea di farli incontrare?
È la classica vicenda delle “buddy comedy” dei film hollywoodiani: due personaggi diversi, che avrebbero potuto non entrare mai in contatto e che invece si incontrano, si scontrano, a poco a poco si conoscono e si completano a vicenda, usando uno i punti di forza dell’altro per mascherare le proprie debolezze e per cambiare. E il loro incontro è proprio uno dei motori che fa evolvere la storia.
Se vogliamo potrebbero assomigliare a Jack Lemmon e Shirley McLaine o a tante altre coppie simili. La differenza, nel nostro caso, è che il rapporto tra Greta e Marlon non si trasformerà mai in una storia d’amore, ma prenderà la forma di un’amicizia sempre più profonda e coinvolgente. Già in Macerie, quando a Marlon muore il padre e la morosa Violetta lo lascia, lui non trova di meglio che parlarne con Greta, che in quel momento è solo il suo capo e il suo datore di lavoro. Siamo nel 1950 e vale la pena ricordare che i rapporti tra uomo e donna erano molto diversi da ora: difficile pensare a storie di amicizia e tanto meno di donne che occupano un posto più altolocato del maschio nella scala sociale. Nel nostro romanzo succede.
- La vicenda si snoda perché alcune prostitute, nel 1950, vengono trovate ammazzate. Non scrivete ipocritamente di case chiuse, ma di bordelli. Che sono tantissimi, da quelli scalcinati a quelli di "prima classe". Com’era da questo punto di vista la Milano dell’epoca? E chi si poteva trovare nei bordelli?
A quell’epoca i bordelli erano presenti in tutta Italia, regolamentati e frequentati dalla maggior parte degli uomini. Così è stato fino alla loro chiusura, nel 1958, grazie alla Legge Merlin. Erano persino i padri a far “svezzare” i figli alle soglie della pubertà dalla loro prostituta di fiducia, anzi, alcune professioniste erano famose proprio per quel ruolo di nave scuola. Storie che sembrano dell’Ottocento ma che sono state realtà fino a settant’anni fa. A Milano erano attive un terzo delle case chiuse di tutta Italia, una città che era una vera e propria capitale del vizio, organizzato per ceto e per trasgressione, tanto per dire erano molti gli uomini, femminielli, androgini o virili che esercitavano il meretricio per soddisfare qualunque curiosità dei clienti.
Perché a Milano se ne trovavano così tanti? Forse semplicemente perché era una grande città industriale avviata a diventare sempre più ricca, forse perché era più internazionale e meno moralista di tanti altri luoghi.
I bordelli raffinati erano salotti culturali, luoghi di incontro e non solo di amore a pagamento. C’erano scrittori che lì lavoravano, scambiando idee con altri intellettuali. I postriboli più popolari attiravano anche i ceti borghesi, spesso per un malato gusto del degrado, più un luogo era “basso”, più si pensava che tutto fosse permesso e minori erano i possibili sensi di colpa. In conclusione nelle case chiuse le classi sociali probabilmente si mescolavano all’epoca come in nessun altro luogo. Poi c’erano loro, le donne. Le uniche vittime, usate, maltrattate, prive di diritti, definite, secondo una frase di Giovanni Papini, citata anche in M di Antonio Scurati, “orinali di carne”. Ci troviamo di fronte a un machismo esasperato e impunito, con un totale disprezzo per le donne, atteggiamenti tipici del fascismo che sopravvivevano, rivendicati e non solo tollerati, anche negli anni Cinquanta del nostro racconto.
- Che cosa piace a Erica di Maimone e cosa Giorgio apprezza di Arosio?
Erica: di Giorgio mi piace la generosità, non ha tracce di egoismo nel suo carattere e non ne ha neppure nel lavoro di scrittura. Il mio coautore mette in campo tutto quello che può e che ha in quel momento, che sia poco o molto, è comunque e sempre tutto. Una volta che lo hai capito, non puoi che apprezzarlo. Poi ama scrivere e gli viene facile, è romantico e irruente, a volte affrettato, ma nella sua scrittura affiorano le sue molte letture e la sua esperienza di vita, non breve, diciamolo, che assieme vanno ad arricchire una voglia di scrivere che credo si possa datare intorno ai suoi tre anni. Giorgio sa lavorare in squadra anche se di tanto in tanto non tiene a bada una dose discreta di prepotenza autoritaria, che comunque io sono in grado di fronteggiare più o meno serenamente.
Giorgio: di Erica mi sorprende la memoria. Fantastica. Basta citare qualcosa una volta e lei se la ricorda per sempre. Apprezzo la sua profonda conoscenza cinematografica e la capacità di pensare per immagini: sentirle raccontare un pezzo di trama equivale a vederla formarsi e realizzarsi, come fosse una proiezione, sui muri della stanza. Quello che mi piace è anche che siamo riusciti a ideare un metodo di lavoro, a realizzarlo e a replicarlo all’infinito. Esperimento scientifico riuscito quindi, in quanto replicabile. Grazie anche alla capacità di non fossilizzarsi alla morte su una singola idea.
- Non so se vedo troppi film, ma questo romanzo l’ho trovato zeppo di riferimenti cinematografici. Conosco la passione e la competenza di Erica per quanto riguarda la settima arte, ma credo che anche Maimone lo ami molto. È così? (Un film sulla Milano di quegli anni sembra scontato dirlo, ma è Rocco e i suoi fratelli di Visconti.)
Erica: Amiamo tutti e due molto il cinema e abbiamo visto tanti film. Di sicuro in Macerie sottotraccia se ne trovano molti. La palestra e le atmosfere di Rocco e i suoi fratelli, la magia di Miracolo a Milano, la freddezza borghese di Cronaca di un amore, lo splendido film di Antonioni, ma anche la corsa surreale di Dario Fo in Lo svitato, primo e poco conosciuto film di Carlo Lizzani che ha come sfondo la Milano del 1956, ancora vuota, con poco traffico e quasi nessun albero. Altre influenze cinematografiche sono più sfumate come l’ossessione torbida di Psycho e la spregiudicatezza amara di Pretty baby, di Louis Malle, un film ambientato in un bordello di New Orleans ai primi del Novecento. Il cinema è importante anche per un altro aspetto: credo che molte pagine abbiano uno sguardo cinematografico, si scrivono capitoli ma si descrive anche una messa in scena, come se prima della scrittura fosse stato allestito un set, come se avessimo apparecchiato la scena con tanto di costumi ambienti e trovarobato. Con un indiscusso vantaggio: spendendo molto meno che per un film.
- A proposito del film di Visconti, il fratello di Rocco, interpretato da Renato Salvatori, fa la boxe come Mario, per uscire dall’anonimato, per noia, ma anche per portare qualche lira a casa. Ma Mario fa venire il mal di testa come accade a Greta, che ha a che fare con uno sportivo, ancora scapolo, che sa parlare dell’Iliade, ha letto molto, ma non è arrivato alla laurea. Vi siete divertiti entrambi con Mario, pardon Marlon?
Giorgio: Uno dei vantaggi maggiori dello scrivere in due, un uomo e una donna, è la possibilità di intervenire sui personaggi da due punti di vista, uno maschile e uno femminile (senza che necessariamente corrispondano ai nostri generi). In questo modo a un personaggio si dà una plasticità, una rotondità, un rilievo che altrimenti non potrebbe avere. L’idea primigenia di Marlon è stata di Erica, io ho inventato invece Mario Longoni (vero nome che dà origine alla crasi di Marlon), ossia un pugile milanese, comunista, proletario e detective. Da lì in poi, ogni svolta del personaggio, ogni ruga che si porta addosso, ogni sofferenza, gioia e dolore è stato condiviso. Partendo dal calco americano di Philip Marlowe, abbiamo costruito un eroe di quei tempi, modellato sulle storie che ci venivano raccontate dai nostri padri, e che fosse intimamente milanese e innamorato della sua città.
- La stessa domanda su Greta, una delle prime donne avvocato, ancora giovane e inesperta, idealista, che non può che provare disgusto per la difesa di un colpevole, per quanto doverosa. Come è nata come personaggio? Chi di voi due ha scritto più di lei?
Erica: Sia Greta che Marlon sono raccontati con la penna di tutti e due gli autori, in Greta c’è in misura maggiore di sicuro la mia mano. La nostra avvocatessa dei quartieri alti incarna la ribellione, è un’antesignana del femminismo, non si rassegna al ruolo di secondo piano al quale erano relegate le donne allora. Vuole affermarsi, lavorare, essere indipendente ed è una strada non facile. Greta combatte ma soffre, ha il peso di una madre che si è suicidata quando lei era ragazzina e vive in una società dove la condizione femminile di inferiorità è la regola non discussa. Raccontando Greta ho pensato alle donne della mia famiglia, spesso più intelligenti e forti degli uomini che avevano al fianco, ma a loro sottomesse. Sono state modello di ispirazione anche le madri dei miei compagni di liceo, donne dell’alta borghesia che vedevo nelle loro case perfette muoversi come fantasmi, belle, ricche ma private di un ruolo sociale autonomo. Donne che si imbottivano di tranquillanti, barbiturici, sonniferi. Gli psicofarmaci non c’erano, in compenso tutte le donne soffrivano di nervi e non erano rari i ricoveri nelle cliniche private, dove venivano sottoposte alla cura del sonno. Potrei scrivere libri interi sul lungo cammino femminile per distanziarsi da quell’emarginazione e, come abbiamo potuto constatare anche di recente, nessun diritto si può mai dire acquisito per sempre.
- Poi arriviamo ai personaggi minori di Macerie, anche se non sono affatto minori. Il mondo privilegiato, ma claustrofobico e psicologicamente devastato di Folco e Orio, i genitori di Mario, i genitori di Greta, pardon il padre, perché Mimi’ è la matrigna. Le prostitute. Tutti trattati con lo stesso impegno. È stata una scelta di entrambi, suppongo?
Giorgio: Ogni volta che si inizia un romanzo nuovo, bisogna partire dai personaggi. Non esisterebbe un protagonista se non ci fosse un antagonista al suo stesso livello. Diciamo che i “buoni” sono sempre uguali (per semplificare) e tocca ai “cattivi” essere speciali. È chiaro quindi che ogni personaggio debba essere tornito, affinato, sgrezzato in modo tale da risultare più “persona” che personaggio, in modo che abbia una sua intima verità.
C’è poi un secondo tema, che è caratteristico del nostro modo di scrivere: non si fa un romanzo con solo un “buono” e un “cattivo” e con gli altri come figurine bidimensionali di contorno. C’è bisogno di un gioco di squadra. Personalmente amo molto i personaggi secondari, i Pessina, le Violette, le Chérie, i genitori dei protagonisti che vengono a dar colore al romanzo. Proprio dalla cura dei personaggi minori si può prendere lo spunto per raccontare un mondo e non solo una storia. Mi piace provocare ogni tanto il mondo del giallo, dichiarando che “la trama è sopravvalutata”. Ossia che se si riduce il giallo alla sola scoperta del colpevole, come fosse Cluedo, lo si richiude, senzienti, nel ghetto della letteratura di genere. Un giallo invece è un romanzo e deve avere la dignità del romanzo. Madame Bovary lo sappiamo benissimo come finisce, eppure la leggiamo lo stesso. Quindi non posso credere che Macerie stia tutto nel nome del colpevole che è… no, per questa volta non ve lo dico!
- Di scrittori a quattro mani si pensa immediatamente a Fruttero e Lucentini, a cui avete "rubato" l’ironia e la mania per il dettaglio, ma in generale e non solo in Italia, quali scrittori singoli vi sono più vicini, quali vi piacciono?
Giorgio: Un’altra domanda di quelle che mi piace (e che ci fa onore). A noi stessi piace richiamare, con grande modestia, Fruttero e Lucentini, perché in effetti, un terreno comune ci può essere. Nel senso che noi ci siamo ispirati a loro anche per il disincanto leggermente ironico con cui narrano le loro avventure. I maestri nostri sono tantissimi e qui passo la parola a Erica, ma un nome voglio citarlo: Marco Vichi e il suo Commissario Bordelli. È innegabile che la prima ispirazione per scrivere storie ambientate negli anni Cinquanta e Sessanta, sia venuta leggendo i libri di Vichi, soprattutto i primi, che trovo assolutamente geniali.
Erica: Sono un’ammiratrice a 360 gradi di Georges Simenon, mi piace la sua precisione nella descrizione dei personaggi, perché tutti, anche l’ultima comparsa di un Maigret non hanno mai caratterizzazioni banali. E la sua biografia è un romanzo a sé. Mi interessano gli scrittori noir, come Jim Thompson, Derek Raymond, David Goodis, Patricia Highsmith e anche la gotica Shirley Jackson per la capacità che hanno di investigare il male e il torbido e per quanto hanno lavorato sull’inconfessabile di certi meandri dell’animo umano e sul senso di colpa.
- Sono quasi dieci anni che collaborate e vivaddio per voi si usa ancora la parola "giallo", dal momento che ora è diventato tutto noir. Basta solo un omicidio ed ecco pronto il noir. Riuscirete più avanti a scrivere un romanzo sul nuovo millennio o trovate anche voi che questi anni sono troppo contradditori, "malati" e non solo per il virus, percorsi da passioni tristi, dove ci viene ricordato ogni cinque minuti che siamo tutti connessi?
Stiamo attraversando anni faticosi, con un’accelerazione folle dal marzo 2020, quando allo strapotere del virtuale/digitale si è aggiunta la pandemia. Non solo siamo connessi 24 ore su 24, ma anche tracciati e controllati, siamo subissati di login e password, ogni azione, compresa l’attivazione della garanzia di un banale aspirapolvere, si trasforma in un iter burocratico step by step e guai a sbagliare. Per tutti noi di una certa età, per tutti noi che non siamo nativi digitali, questa rivoluzione informatica e sociale è molto pesante da fronteggiare. Non possiamo sottrarci, perché sarebbe un po’ come ostinarsi a battere i tasti della macchina da scrivere invece di usare il computer, che ha pure mille potenzialità e comodità. La scrittura non può snobisticamente tirarsi fuori: anche noi dobbiamo fare i conti con questa sorta di nuovo che avanza. Ci siamo tuffati nel contemporaneo con due giallini lievi, pubblicati per la casa editrice Frilli, usciti nel 2020 e 2021, Delitti all’ombra dell’ultimo sole e La lista di Adele. Contemporanei ma furbi, nel senso che abbiamo scelto come ambientazione un luogo defilato, le Cinque terre, il secondo poi è ambientato nel tempo falsato del lockdown che ha fatto prendere alla storia una dimensione al di fuori del tempo.
Definire giallo e noir, addentrarci nei nuovi percorsi del romanzo di genere e non, richiederebbe un dibattito con contraddittorio di almeno una giornata. Ecco perché ci limitiamo a un paio di osservazioni che possono essere utili spunti per un discorso ben più approfondito. Più che distinguere fra giallo e noir, crediamo che gli scrittori del “polar” (caviamocela col francese!) siano, come anche i fratelli dei romanzi mainstream, influenzati dalla nuova serialità nata per la televisione, copiata dal cinema ed esasperata dalle piattaforme. Fra le molte cose che avremmo voglia di dire ne isoliamo alcune: la contaminazione del giallo/noir/thriller/poliziesco con il feuilleton, la narrazione che ignora la parola fine e la moltiplicazione di personaggi e situazioni, ben più di quello che viene definito spin off. Disponibili a un’intervista centrata solo su queste tematiche, molto molto volentieri. Grazie per averci ospitato!
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Erica Arosio e Giorgio Maimone, in libreria con Macerie
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