La pelle, pubblicato nel 1949, è l’opera più celebre di Curzio Malaparte (1898-1957). Si tratta di un romanzo scritto in prima persona, in cui egli descrive in maniera impietosa le condizioni in cui versa Napoli durante la Seconda guerra mondiale, dopo lo sbarco degli alleati che avanzano per abbattere il nazifascismo. Nei racconti, toccanti e grotteschi a un tempo, l’umiliazione dei partenopei si mescola alla ricchezza della loro storia.
Da Eschilo a Malaparte
L’autore ha scelto una frase dell’Agamennone di Eschilo (525 a.C.-456 a.C.) come cardine della narrazione:
“Se rispettano i templi e gli Dei dei vinti, i vincitori si salveranno”.
Il generale Cork, “vero gentleman americano”, chiede a Malaparte chi sono gli dèi d’Europa che gli statunitensi devono rispettare al fine di salvarsi, e lo scrittore gli risponde: “La nostra fame, la nostra miseria, la nostra umiliazione”. A esse l’ufficiale unisce altri dèi: “I vostri delitti, i vostri rancori, e mi dispiace di non poter aggiungere: il vostro orgoglio”.
Tra le pagine del libro si incontrano molti soldati stranieri che disprezzano Napoli, l’Italia e l’Europa perché le reputano le sole responsabili delle loro stesse sventure, tradimenti e vergogne. Eschilo è stato un drammaturgo greco, chi scrive si sente però di avanzare un’ulteriore interpretazione de La pelle.
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La spiritualità dei romani era diversa da quella greca: in origine a Roma la religione era concepita essenzialmente come un patto tra le comunità degli uomini e le divinità, e forse questa concezione è più vicina al messaggio di Malaparte. Il compito primario del culto, per i romani, era assicurare la pax deorum, poiché si credeva che in cambio dell’osservanza dei riti gli dèi garantissero il loro favore.
Con le conquiste, l’assimilazione delle divinità dei popoli sottomessi costituì per i romani un’usanza normale, non solo per motivi politici, ma anche scaramantici: da un lato si dava un segno di disponibilità e di accettazione ai vinti e dall’altro ci si cautelava in funzione apotropaica (mettersi contro le divinità è pericoloso).
Sembrerebbero inquadrabili così le parole di Malaparte quando avverte:
“Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. È il destino dell’Europa di diventar Napoli. Se rimarrete un po’ di tempo in Europa, diventerete anche voi napoletani.”
Un pensiero questo, che suona come una maledizione degli dei sconfitti. Ed è fondamentale notare come tra i vinti sia annoverato anche il Regno Unito, la cui egemonia di prima potenza mondiale era tramontata per sempre. L’intera Europa è decaduta, due sarebbero stati gli attori principali dell’ordine globale postbellico: l’Unione Sovietica e gli USA. Ma vincitori e odiatori dei vinti, per Malaparte, sono anche gli italiani che disprezzano loro stessi e il loro re, che buttano nel fango, ai piedi dei vincitori, le armi e le bandiere:
“Ed erano le bandiere della Repubblica di Venezia, che avevano sventolato sugli alberi delle galee a Lepanto, sulle torri di Famagosta e Candia. Erano i vessilli della Repubblica di Genova, quelli dei Comuni di Milano, di Crema, di Bologna, che avevano sventolato sul Carroccio nelle battaglie contro l’Imperatore tedesco Federico Barbarossa. Erano gli stendardi dipinti da Sandro Botticelli, che Lorenzo il Magnifico aveva donato agli arcieri di Firenze; erano gli stendardi di Siena, dipinti da Luca Signorelli. Erano le bandiere romane del Campidoglio, dipinte da Michelangelo. V’era anche la bandiera offerta a Garibaldi dagli italiani di Valparaiso, e la bandiera della Repubblica Romana del 1849. V’erano anche le bandiere di Vittorio Veneto, di Trieste, di Fiume, di Zara, dell’Etiopia, della guerra di Spagna.”
Anche questi sono gli dèi sconfitti, che i vincitori dovrebbero rispettare, quelli della vecchia e della nuova Italia.
Gli italiani sono i primi a non rispettarsi e anche a essi spetta la maledizione degli dèi; questo è uno dei ritratti dell’italianità che emergono ne La pelle: si ha l’impressione che mettersi al servizio di un invasore, disprezzare l’Italia e se stessi, fregare il prossimo, piangersi addosso (comportamento ben diverso dal mostrare orgoglio) e ostentare i meriti di remoti antenati (ormai lontanissimi dal presente) siano abitudini caratteristiche degli italiani. La vera dignità nella sconfitta è quella di chi si mostra degno “delle vergogne d’Italia”, ma ogni vittoria è vana e ogni vincitore può cadere in disgrazia come i vinti.
La pelle e Il Gattoparto
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Può anche essere interessante, concludendo, cercare di meditare e di confrontare questi passi del romanzo preso in esame con altre parole tratte da Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa (1896-1957), in cui le azioni militari dei garibaldini in Sicilia vengono spiegate con una semplice frase:
“’They are coming to teach us good manners […] but won’t succed, because we are gods’. ’Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi’”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La pelle” di Curzio Malaparte e gli dèi degli sconfitti
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