Da qualche giorno è in libreria Le serenate del ciclone di Romana Petri (Neri Pozza 2015), metà romanzo e metà memoir familiare nel quale l’autrice rievoca la figura del padre Mario Petri, pseudonimo di Mario Pezzetta (Perugia, 21 gennaio 1922 – Città della Pieve, 26 gennaio 1985), basso-baritono e attore. Ripercorrendo sessantatré anni di vita di un uomo dalla personalità forte, detto “Ciclone”, la sempre brava autrice in questo libro dedicato “Alla memoria di mio padre, il leggendario. Ma anche del Kid, che non ho conosciuto, e di Charles Bronson”, come in un esaltante documentario filma alcune coinvolgenti scene dell’Italia di allora.
“Il babbo non era mai riuscito a vivere un solo giorno nel presente, era sempre proiettato nel futuro, come se la vita non avesse fine”.
Romana Petri è nata a Roma e vive in questo periodo tra questa città e Lisbona. Ha ottenuto numerosi premi come il Premio Mondello, il Rapallo Carige, il Grinzane Cavour e il Bottari Lattes. È stata due volte finalista al Premio Strega. Traduttrice, editrice e critico letterario collabora con La Stampa, il Venerdì di Repubblica, Corriere della Sera e Il Messaggero. I suoi testi sono tradotti in varie lingue e molto richiesti in Inghilterra, Francia, Stati Uniti, Spagna, Serbia, Olanda, Germania e Portogallo. Tra le sue opere: Ovunque io sia (BEAT 2012), Alle Case venie, I padri degli altri, La donna delle Azzorre, Dagoberto Babilonio, un destino, Esecuzioni, Tutta la vita, Figli dello stesso padre e Giorni di Spasimato amore. Abbiamo intervistato l’autrice.
- “... e in tutto ciò che è sovranamente bello la forza ha larga parte nell’incantesimo”. Signora Petri, per quale motivo ha posto come esergo del volume una frase tratta da Moby Dick di Hermann Melville?
Perché mio padre era un personaggio che poteva uscire fuori solo da storie così, storie ciclopiche, egiziache. Perché nella sua vita è stato contemporaneamente Achab e la balena bianca, insomma l’amico e il nemico di se stesso, la sua ossessione. E perché era fisicamente un uomo fortissimo, un po’ come tutti i personaggi di Moby Dick e, naturalmente, molti personaggi londoniani. La sua forza fisica contrastava con la sensibilità dell’animo. Bastava una parola a ferirlo a morte. Una volta un suo caro amico lo definì così: “Tu stai dentro il corpo di un leone ma hai il cuore di una gazzella”. Questo connubio mi inteneriva profondamente. Sono stata sua figlia, ma certe volte mi sono sentita anche un po’ sua madre…
- Per quale motivo Mario Petri veniva chiamato “Ciclone” e qual è il significato del titolo del libro?
Viene detto subito, nei primi capitoli. All’età di 12 anni mise su una banda di 4 scavezzacollo e ne divenne il capo. Per decidere chi dovesse esserlo si sfidarono tutti e lui ne fu il vincitore. Nel fare a botte lo trovarono così veloce che quel giorno gli diedero il soprannome di Ciclone. E così l’hanno chiamato fino a che è rimasto a Perugia. Ancora non riesco a pronunciare questo nome senza provare un forte struggimento.
- “Il leggendario” non fu solo cantante lirico di grande talento ma anche attore e interpretò svariati film fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, diventando un vero e proprio divo del genere delle pellicole degli “Ercoli”. Tutto ciò è segno di una personalità versatile?
Era un uomo molto curioso, soprattutto nell’ambito del suo mestiere. Si dedicò alle canzoni e al cinema solo per 4 anni, poi tornò alla lirica. Ma tutto gli servì per imparare di più. Il cinema, per esempio, gli diede il modo di mettere in evidenza il suo atletismo che poi trovò il modo, molto antesignano per l’epoca, di riproporre pure in teatro. Ricordo un Mefistofele nel quale lui, in calzamaglia nera e un mantello foderato di raso giallo, cantava saltando da un tavolaccio all’altro. Sui giornali dissero che una cosa simile nella lirica non si era mai vista.
- Quanto fu importante per la carriera di Petri l’incontro professionale con il Maestro von Karajan?
Moltissimo, mio padre divenne il Don Giovanni più noto al mondo. Una volta, in camerino, gli si presentò Thomas Mann che fu talmente entusiasta della sua interpretazione da regalargli un suo romanzo autografato. Quella con Karajan è stata un’esperienza di grande crescita, mio padre era giovanissimo quando venne scelto da lui. Ma ha cantato con i più grandi direttori dell’epoca, non ce n’è stato uno che non l’abbia voluto. Ha avuto un momento in cui la sua carriera ha toccato davvero un apice straordinario.
- “Noi due ci intendevamo, ecco cos’era. Ogni tanto pure burrascosamente, mica lo nego, ma eravamo noi, e lo eravamo in modo viscerale”. Sta tutto in questa frase il senso profondo del rapporto che la legava a Suo padre?
Eravamo profondamente simili, per questo non avevamo nessuna difficoltà nell’intenderci. Eravamo incendiari e sempre mossi da grandi passioni. Ogni tanto eravamo di parere diverso, e questo, negli scontri, non faceva che attizzare i fuochi. Quando litigavamo facevamo paura, ma il bello è che durava quasi niente e quasi sempre finiva tutto in una grande risata. Gli esplosivi sono così, dopo la vampata c’è la calma, quando poi c’è il senso dell’umorismo, di tutto quel fumo si ride a crepapelle. Era simpatico e fascinoso. Se non avessi avuto un padre così, sempre in costume e che interpretava ruoli tanto “leggendari”, forse non avrei mai scritto. È stato di certo il mio “muso” ispiratore.
- La Sua casa era frequentata da celebri personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo internazionale. Quale Le è rimasto più impresso?
Sono rimasta colpita da tutti, perché avevano delle fortissime personalità. Ma Sergio Leone ha decisamente seccato la mia psiche. Il suo modo di parlare, di raccontare i suoi progetti mi incantavano. Per non parlare dei suoi film. Confesso che li vedo ancora, che molti li conosco quasi a memoria. Mi piaceva tutto quel meraviglioso laconismo, il profondo senso dell’epica che promanavano. Il mito che dominava sempre su tutto. E poi quei film li vedevo sempre con mio padre. Ce li godevamo a modo nostro, mai commentando, solo scambiando ogni tanto delle occhiate di intesa che ci facevano sentire come due di quei suoi personaggi. Ogni film, ogni libro amato, mio padre ed io la vivevamo al parossismo, ci finivamo sempre dentro.
- La parabola esistenziale del “Ciclone” è strettamente legata a sessantatré anni della nostra storia. Ce ne vuole brevemente parlare?
I libri sui padri cominciano quando i padri sono padri, io invece l’ho voluto raccontare tutto, dal giorno in cui è nato al giorno in cui è morto. Fanno da sfondo anni davvero importanti per la storia italiana. Da prima della guerra fino al 1985. Quando mio padre parlava del periodo della sua gioventù usava queste parole: “Quando il mondo era ancora giovane” E aveva ragione, ha vissuto un’epoca in cui tutto si poteva realizzare. Certo, ha attraversato anche la guerra, ma poi la ricostruzione, il famoso boom economico, la dolce vita. Insomma, anni che convinsero chi li ha vissuti che il mondo non poteva essere altro che un’ascesa, tutto non poteva fare altro che migliorare. Un’illusione, certo, ma di quelle che fanno vibrare parecchio. Quando divenne maturo, si definì un uomo di speranze ma senza illusioni. La vita gliene aveva fatte vedere di tutti i colori.
- Nell’Epilogo scrive: “Ci ho messo venticinque anni per scrivere un libro su di te”. Come mai?
Perché questa non è una resa dei conti con il padre morto, è un omaggio nato dalla profonda mancanza che sentivo di lui. Una mancanza che cresceva con il passare degli anni. Alla fine la sua assenza è stata così dolorosa che invece di scrivere un libro su di lui per provare a tumularlo una volta per tutte, l’ho scritto per poter stare ancora in sua compagnia. Per riprendermelo intero. Ecco perché ho cominciato dalla nascita, perché averlo perso tanto presto mi ha fatta sentire un po’ in credito, e allora l’ho rivoluto accanto a me, ma dal principio alla fine. Nella parte della sua vita che non ho conosciuto e quella che invece ho vissuto con mostruosa intensità.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Le serenate del ciclone: intervista alla scrittrice Romana Petri
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