I cosacchi dello Zaporož’e scrivono una lettera al sultano di Turchia, dipinto tra il 1880 e il 1891 dall’artista russo Il’ja Efimovič Repin (1844-1930) – divenuto poi ispiratore della corrente del realismo socialista– è forse una tra le tele più irriverenti mai concepite, nonché il quadro russo venduto al maggior prezzo nella sua epoca: lo Zar Alessandro III Romanov (1845-1894), fervente nazionalista, lo acquistò per ben 35000 rubli (un’enormità), per portarlo a San Pietroburgo, dove è conservato ancora oggi presso il Museo di Stato Russo di Palazzo Michajlovskij.
Ma cosa rappresenta questo dipinto? Siamo sulla più grande isola del fiume Dnepr, Chortycja: un’umanità variegata è raccolta attorno a un tavolo, ci sono baffoni e bocche sdentate, le smorfie dei rudi uomini riuniti indicano che le loro menti stanno macinando qualcosa. Un cosacco anziano distoglie lo sguardo per concentrarsi di più, è il loro capo: Ivan Sirko (1605 ca.-1680). Altri militari già ridono di gusto, uno congiunge il pollice e il medio: sta dettando lui le ultime parole allo scrivano.
Il pittore ci trasporta nel 1676, al tempo della guerra russo-turca, la storia aneddotica racconta che la guarnigione dei cosacchi dello Zaporož’e volle spedire una beffarda lettera al sultano ottomano Mehmed IV (1642-1693), detto "il cacciatore" per via della sua passione per tale attività (che spesso lo distoglieva dai suoi impegni politici).
Storicamente, nel 1667 Mehmed strinse un’alleanza con il capo cosacco Petro Doroshenko (1627-1698), ma la maggioranza dei cosacchi, dei polacchi e dei russi rimase ostile ai turchi. Il 19 settembre 1676 i russi catturarono Doroshenko e lo condussero prigioniero a Mosca, mentre i cosacchi dello Zaporož’e umiliarono i musulmani in più occasioni.
Secondo la leggenda, poco dopo che le truppe turche erano state sconfitte dai russi, l’imperatore di Costantinopoli, anziché trattare una resa, aveva pensato di chiedere ai suoi avversari di sottomettersi docilmente, inviandogli il seguente messaggio:
"In quanto sultano, figlio di Maometto, fratello del Sole e della Luna, nipote e viceré per grazia di Dio, governatore del regno di Macedonia, Babilonia, Gerusalemme, Alto e Basso Egitto, imperatore degli imperatori, sovrano dei sovrani, cavaliere straordinario e invitto [sic!], fedele guardiano del sepolcro di Gesù Cristo, fido prescelto da Dio stesso, speranza e conforto dei musulmani, gran difensore dei cristiani – io comando a voi, cosacchi dello Zaporož’e, di sottomettervi a me volontariamente e senza resistenza alcuna e di cessare di tediarmi con i vostri attacchi".
Lo straniero, però, non era nelle condizioni di esigere nulla e i cosacchi trionfanti decisero di rispondergli per le rime, o meglio di deridere i suoi titoli altisonanti. Si misero attorno a una tavola e decisero di scrivere una missiva che fosse all’altezza del personaggio che li aveva interpellati.
Il testo della lettera dei cosacchi al gran turco
Il testo della lettera ci è stato tramandato all’incirca così:
"I cosacchi dello Zaporož’e rispondono al sultano dei turchi. – Tu, diavolo d’un turco, maledetto compare e fratello del demonio, servitore di Lucifero stesso. Che cazzo di cavaliere sei, tu che non riesci ad uccidere un riccio col tuo culo nudo? Il demonio caca, e il tuo esercito si mangia la sua merda. Non avrai mai, figlio di puttana, dei cristiani ai tuoi ordini; non temiamo il tuo esercito e per terra e per mare continueremo a combatterti, sia fottuta tua madre. Tu sguattero di Babilonia, carrettiere di Macedonia, birraio di Gerusalemme, fottitore di capre di Alessandria, porcaro d’Alto e Basso Egitto, maiale d’Armenia, ladro infame della Podolia, pigliainculo dei Tartari".
È il caso di soffermarsi su quest’ultimo insulto. Probabilmente si tratta di un’allusione alla diceria secondo cui i maomettani avrebbero un’inclinazione per la pederastia. Si tratta di una voce, questa, diffusa in tutta Europa: si racconta che diversi mercanti veneziani siano tornati dall’Anatolia e dall’Arabia narrando l’immoralità dei seguaci del profeta; secondo questi commercianti italiani i turchi bestemmiavano abitualmente e i ricchi musulmani, in segreto, si sbaciucchiavano (e facevano altro ancora...) con i loro amici del cuore.
Dalla prima storiella dovrebbe derivare il famoso detto “bestemmiare come un turco”; inoltre durante le battaglie sul suolo europeo i soldati turchi si fecero la tremenda nomea di sodomizzatori dei loro prigionieri.
Ma seguitiamo con la lettera dei cosacchi: "boia di Kam’janec’" scrivevano al gran turco i cavalieri della steppa,
"e più grande sciocco di tutto il mondo e degli inferi, idiota davanti al nostro Dio, nipote del serpente [cioè del demonio] e ruga del nostro prepuzio. Muso di porco, culo di giumenta, cane di un macellaio, fronte non battezzata, scopati tua madre! Questo dichiarano gli Zaporozi, essere infimo. Non puoi dare ordini nemmeno ai maiali di un cristiano. Concludiamo: non sappiamo la data e non possediamo un calendario; la luna è in cielo, l’anno sta scritto nei libri: il giorno è lo stesso sia da noi che da voi. Puoi baciarci il culo!"
I cosacchi erano un popolo dal portamento militaresco e alquanto orgoglioso, ricordò Lev Tolstoj in un suo racconto del 1863 (I cosacchi), consci del proprio valore.
Qualche anno più tardi, il 14 luglio 1683, sempre l’esercito di Mehmed IV – il sedicente “gran difensore dei cristiani” – giunse ad assediare Vienna, ma tra l’11 e il 12 settembre gli ottomani furono sbaragliati sulle alture di Kahlenberg (il Monte Calvo) dalle forze imperiali di Carlo V di Lorena (1648-1690) e dalle mitiche truppe polacche di Giovanni III Sobieski (1674-1696), il Leone di Lehistan.
Come è già stato detto, non si hanno prove certe che avvalorino la veridicità del colorito episodio della risposta degli uomini della steppa al sultano, tuttavia questa storia ha avuto grande risalto nell’immaginario popolare e ha contribuito a consacrare il coraggio dei cosacchi e la fama del loro spirito ribelle e indomabile.
Il testo della lettera, forse, è frutto della fantasia popolare, ma l’ardore dei cosacchi era vero, il contatto prolungato con il nemico li rese guerrieri spietati, magnifici cavallerizzi che per tradizione avevano una perfetta conoscenza del loro territorio, talvolta male armati sceglievano senza indugio lo scontro corpo a corpo, l’assalto all’arma bianca.
Questo coraggio può rappresentare ancora oggi un esempio, soprattutto in un tempo come il nostro, un tempo in cui il despota Erdoğan – che si proclama moderato e democratico conservatore –, i cui crimini sono ben noti, infarcisce i suoi grotteschi appelli ultranazionalisti di riferimenti all’Impero ottomano. Che l’ardore indisciplinato dei cosacchi sia d’esempio per i cristiani di Costantinopoli, offesi dalle politiche di Erdoğan, e per i dissidenti che resistono alle imposizioni dittatoriali del presidente turco.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La leggendaria lettera dei cosacchi al gran turco: un esempio di coraggio e indomabilità
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