Lumie di Sicilia
- Autore: Luigi Pirandello
- Genere: Classici
- Categoria: Narrativa Italiana
La novella Lumie di Sicilia di Luigi Pirandello, il cui titolo fa riferimento al frutto d’una pianta del genere Citrus con fiori rosa molto profumati e simile per il sapore acidulo al limone, è del 1910 e pubblicata nelle Novelle per un anno. Non pochi i pregi: dall’incisiva chiarezza e raffinatezza dei dialoghi alla sottile espressione di stati d’animo in cui si rinviene anche un procedimento rievocativo, dalla sorpresa alla preparazione del dramma che si risolve nel riso e nel pianto ai personaggi ben caratterizzati nel tempo e nella società.
Nella parte descrittiva c’è l’arte della recitazione che incanta per l’oralità come adeguatezza a ciò che accade. Con modifiche e accorgimenti formali, non privi di divergenze, ne è derivata nel 1911 la commedia in un atto unico avente lo stesso titolo, edito per Garzanti nel 2020 nel volume Lumie di Sicilia e altri atti unici. Fu rappresentata, assieme a La morsa, il 9 dicembre 1910 dalla Compagnia “Teatro dei Minimi”, diretta da Nino Martoglio, al Teatro Metastasio di Roma. Nel maggio 1915 Pirandello ne fece per Angelo Musco una versione in siciliano e fu data alla scena il primo luglio 1915, all’Arena Pacini di Catania: completo il successo diversamente dalla non molto felice rappresentazione romana. Il rifacimento in romanesco intitolato Agro de limone venne curato da Ettore Petrolini.
Il testo, sia della novella che del dramma teatrale, fa riflettere sui mutamenti che intervengono quando si tenta di riprendere un rapporto con i luoghi e con le persone d’un tempo ormai interrotto. Ed è questa una problematica molto sentita da Pirandello, tant’è che contemporaneamente riappare nel romanzo Quaderni di Serafino Gubbio operatore (dapprima intitolato Si gira... sottotitolato Fascicolo primo, secondo, ecc. delle Note di Serafino Gubbio operatore, apparso nel 1915 a puntate sulla “Nuova Antologia” e ristampato da Treves nel 1925). Vediamone il motivo fondamentale.
Ad un certo momento della narrazione, Serafino si reca a Sorrento per rivedere la villetta dove aveva vissuto un periodo della giovinezza. Quale delusione, però! Che la nostra vita sia un viaggio ininterrotto dalla nascita fino alla morte, dove l’inarrestabile corsa del tempo stravolge la fisionomia di ogni cosa, è un fatto scontato. Il paesaggio muta, le persone cambiano, i bisogni si trasformano. Ma anche se un oggetto dovesse rimanere inalterato, noi lo vedremmo pur sempre diverso. Sono i mutamenti dell’io a svuotare la realtà del passato, essa cambia perché siamo noi cambiati:
La villetta? Era quella? Possibile che fosse quella? Eppure di mutato non c’era nulla, o ben poco […] Riconoscevo ch’era quella, e mi pareva impossibile che fosse; riconoscevo ch’era rimasta tal quale, e perché dunque mi sembrava un’altra? Che tristezza! Il ricordo che cerca di rifarsi vita e non si ritrova più nei luoghi che sembrano cangiati, che sembrano altri, perché sentimento è cangiato, il sentimento è un altro. Eppure credevo d’essere accorso a quella villetta col sentimento d’allora, col mio cuore d’un tempo! Ecco sapendo bene che i luoghi non hanno altra vita, altra realtà fuori di quella che noi diamo a loro, io mi vedevo costretto a riconoscere con sgomento, con accoramento infinito: - Come sono cangiato! - La realtà ora è questa. Un’altra.
La villetta di Sorrento, il luogo dell’anima non alienata e l’eden della memoria, non gli appartiene più; non vi si riconosce, essendo ormai tutto distrutto. La consistenza delle cose è soltanto nella memoria e i suoi ricordi non hanno un riscontro nella realtà. Resta perciò deluso del suo viaggio dominato dalla dinamica del mutamento e dai segni devastanti del tempo. La casa, già venduta, appartiene ad altri proprietari, mentre nonna Rosa e Duccella abitano altrove. Prima che una vecchia contadina l’accompagni da loro, dà un ultimo sguardo e riconosce che i ricordi sono “ombre di sogno”, dolci e care certamente, ma niente di più. La degradazione fisica di Duccella e della nonna gli provoca un forte turbamento. Analogo il motivo nella commedia teatrale Lumie di Sicilia: il mutamento crea una frattura, un abisso incolmabile fra il ricordo, realtà immaginata, e quella che effettivamente consiste.
Ecco in sintesi la trama ricavata dall’edizione del 1920, pubblicata in Maschere nude. Micuccio Bonavino, umile suonatore di violino nella banda comunale del suo paese (Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento), sostiene con il suo misero stipendio la vocazione di Teresina (cresciuti insieme, da piccoli), orfana di padre, riconoscendone le qualità canore: le procura a noleggio un pianoforte e la fa studiare a Napoli coi soldi ricavati dalla vendita del suo piccolo podere. Grazie all’aiuto ricevuto, lei ha avuto successo: il suo nuovo nome è Sina Marnis e non è più la semplice ragazza da sempre amata, ma vive nel lusso e fra i suoi corteggiatori. Micuccio, che non l’ha dimenticata, volendo riprendere la relazione al fine di sposarla, decide di affrontare un viaggio in treno della durata di trentasei ore. I domestici, vedendo in lui un ragazzotto di campagna, fanno di tutto per allontanarlo (“Io non posso ricevervi. Ritornate domattina e la troverete. Adesso la signora è a teatro”).
La conversazione con i camerieri, Dorina e Ferdinando, via via, si fa confidenziale e Micuccio parla della bravura di Teresina:
Ma quella mattina… Un angelo, ecco, un angelo mi parve che cantasse! Zitto zitto, senza prevenire né lei né la madre, verso sera condussi su nella soffitta il maestro della banda, che è un mio amico… - Uh, amicone per questo: Saro Malaviti… tanto buono, poveretto… - La sente… - lui è bravo, un maestro bravo… che lì a Palma lo conoscono tutti… - dice: “Ma questa è una voce di Dio!”. Figuratevi che allegrezza! Presi a nolo un pianoforte, che per arrivare lassù, in soffitta… basta! Comprai le carte da musica, e subito il maestro cominciò a darle lezione… ma così… contentandosi di qualche regaluccio che potevo fargli di tanto in tanto… Che ero io? Quel che sono adesso: un poveraccio… il pianoforte costava, le carte costavano… e poi Teresina doveva nutrirsi bene...
Nella novella invece il procedimento è memorialistico e visionario. Come in un flash-back, candidamente Micuccio si abbandona alle sue rimembranze:
Rivedeva col pensiero la soffitta squallida, laggiù laggiù, a Messina, dove Teresina abitava con la madre. Cinque anni addietro, in quella soffitta lontana, se non fosse stato per lui, mamma e figlia sarebbero morte di fame. E l’aveva scoperto lui, lui, quel tesoro nella gola di Teresina! Ella cantava sempre, allora, come una passera dei tetti, ignara del suo tesoro: cantava per dispetto, cantava per non pensare alla miseria a cui egli cercava di sovvenire alla meglio, non ostante la guerra che gli movevano in casa i genitori, la madre specialmente. Ma poteva abbandonai Teresina in quello stato, dopo la morte del padre? Abbandonarla perché non aveva nulla, mentre lui, bene o male, un posticino ce l’aveva, di sonator di flauto nel concerto comunale! Bella ragione! E il cuore? Ah, era stata una vera ispirazione del cielo, un suggerimento della fortuna, quel far caso alla voce di lei, quando nessuno ci badava, in quella bellissima giornata d’aprile, presso la finestra dell’abbaino che incorniciava vivo vivo l’azzurro del cielo. Teresina canticchiava un’appassionata arietta siciliana, di cui Micuccio ricordava ancora le tenere parole. Era triste Teresina, quel giorno, per la recente morte del padre e per l’ostinata opposizione dei parenti di lui; e anch’egli – ricordava era triste, tanto che gli erano spuntate le lagrime, sentendola cantare.
Conversando, con disinvolta sicurezza rivela i particolari della carriera di Teresina: ha conservato i giornali che parlano di lei e li ha portati con sé insieme alle lettere che lei e la madre gli inviavano. Micuccio anche l’ottavino, col quale è inseparabile, ha con lui. Quando Teresina e sua madre rincasano, a tenergli compagnia è la zì’ Marta, madre della giovane, la quale non ha dimenticato le umili origini ed evoca con nostalgia le trascorse abitudini. Si commuove quando gli fa capire che Teresina è cambiata, conducendo una vita ormai del tutto distante dall’ambiente contadino di provenienza. Quando lei, già impegnata in casa per una serata d’onore a suo favore, fugacemente compare ingioiellata e lussureggiante con una provocante scollatura, Micuccio, stentando a riconoscerla, rimane sorpreso e stupito:
con gli occhi sbarrati, la bocca aperta, abbagliato e istupidito a mirare, come innanzi a una apparizione di sogno, balbetta: Teresina.
Dopo averla veduta, comprende che lei non corrisponde ai suoi ricordi. Era venuto a trovarla anche per restituirle il denaro datogli per curarsi e superare una malattia; aveva anche portato dalla Sicilia un sacchetto di “Lumie” per farle gustare il profumo d’un tempo. La zia Marta, comprendendo la sua delusione, dopo che Teresina è tornata momentaneamente nella sala di ricevimento, rassegnata dice:
Ma io… non posso più farle la guardia, figliolo mio...
Ora lei non merita più la sua attenzione e, quando rientra nuovamente, Micuccio le impedisce di toccare le lumie di Sicilia, non essendone degna; ne prende una e la fa gustate soltanto a zi’ Marta (“Sentite, sentite l’odore del nostro paese…”), la quale aveva compreso il suo disincantato stato d’animo.
Nuova la chiusa rispetto alla novella. Il grido gioioso di Teresina che nella novella mostra le lumie agli ospiti è sostituito dall’intervento di Micuccio che dice:
Tu non le toccare! Tu non devi neanche guardarle da lontano!
Con fierezza ficca con violenza nel seno il denaro prestatogli per curarsi e superare una malattia. Infine il giovane contadinotto ficca nel petto di Sina, che rompe in pianto, il denaro portatole ed esclama:
Per te, c’è questo, ora! ecco! così! E basta – Non piangere! – Addio zia Marta! – Buona fortuna.
Così si è espresso Giovanni Macchia in Maschere nude (edizione Bemporad):
Nelle pagine narrative il passato affiorava pudicamente dalla memoria interiore di Micuccio, appagato di conservarlo gelosamente dentro di sé. Nel dramma invece il protagonista, raccontandolo a due domestici, sfiora la spavalderia, vanta ingenuamente i propri meriti, esibisce le sue doti musicali suonando l’ottavino, svela il più intimo dei suoi segreti: la tacita promessa di matrimonio con Teresina. Non è più, insomma, il timido e introverso personaggio della novella, ma piuttosto un candido sprovveduto, illuso di far colpo su degli estranei che viceversa se lo prendono a godere. L’asse psicologico si è spostato; anche se nella prima edizione (1911) l’approdo del personaggio resta identico a quello della novella: un rassegnato appartarsi.
Poi l’insigne studioso ha rilevato:
Il Micuccio del dramma s’allontanò ulteriormente da quello della novella. Nel racconto, uscito dalla casa di Sina, che quasi non s’era accorta della sua presenza, Micuccio si metteva a piangere e silenziosamente. Nel dramma, esce di scena a testa alta, e a rompere in pianto è Sina.
Così egli conclude:
Parecchi testi pirandelliani in siciliano avranno altrettanta o maggiore fortuna di “Lumie” presso altre scene dialettali, ma nessuno vi si è trovato a proprio agio come la storia di Micuccio Bonavino, che non ha radici squisitamente siciliane, e che può verificarsi in qualsiasi regione ove ci siano una città e una campagna. “Lumie” in siciliano fu il timido e sommesso inizio del rapporto tra Pirandello e Musco. E la rappresentazione che questi ne dette a Roma il 24 febbraio 1916 […] coincide con la prima, sicura presenza dello scrittore alla recita d’una propria commedia. Il giorno dopo Pirandello si mise a scrivere un nuovo copione per Musco: “Pensaci Giacomino”! Il teatro di Pirandello cominciò di lì.
LUIGI PIRANDELLO LA MORSA, LUMIE DI SICILIA, IL DOVERE DEL MEDICO . TEATRO E CINEMA - MONDADORI 1985
Amazon.it: 5,90 €
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Lumie di Sicilia
Lascia il tuo commento