

Nikudan! Proiettili umani
- Autore: Tadayoshi Sakurai
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2022
All’inizio del Novecento, la guerra russo-giapponese, infuriata in Manciuria nel 1904-05, avrebbe potuto mettere in guardia i tecnici militari dagli orrori di uno scontro moderno tra le potenze mondiali. Aveva anticipato infatti il costo esagerato in vite umane e sofferenze inflitto dalle nuove armi (artiglierie, mitragliatrici) e dal ricorso alle difese passive (ridotte, casematte, trincee protette da ostacoli di filo spinato). Tutto confermato, poco tempo dopo, nell’intenso contributo letterario di un combattente nipponico in quel conflitto. La ristampa anastatica del testo dell’ufficiale di fanteria Tadayoshi Sakurai è a disposizione degli appassionati di storia, con il titolo Nikudan! Proiettili umani, su iniziativa della lombarda Oaks Editrice (Sesto San Giovanni, agosto 2022, collana Passato presente, 356 pagine), a cura dello storico Paolo Mathlouthi. Settanta edizioni nel mondo dal 1906, in varie lingue, per il libro dell’allora tenente, trasposto nella nostra lingua dal suo collega Bartolomeo Balbi e apparso in prima edizione italiana nel 1913.
Il traduttore, capitano di fanteria, diplomato nel 1907 in giapponese presso il Regio Istituto Orientale di Napoli, è stato due anni nella terra del Sol Levante, per perfezionarsi nella lingua. Sakurai (1879-1965), capitano trentatreenne nel 1913, comandava il battaglione cadetti della Scuola d’intendenza dell’esercito. Era stato promosso sottotenente di fanteria a 22 anni, tenente a 24 e capitano a 28. Si fregiava delle medaglie di 6a classe dell’Ordine del Sole Levante, di 5a classe dell’Ordine militare Kite d’oro e di quella commemorativa della campagna in Manciuria. Nonostante si fosse distinto in diverse azioni eroiche, nessuna è in effetti un riconoscimento al valore militare, allora non ancora istituito in Giappone.
Con orgoglio patriottico, il giovane tenente anteponeva al suo testo il sigillo dell’imperatore del Sol Levante, due caratteri che comprovano “l’augusto” esame di un’opera, come si può apprezzare nella fedele ristampa Oaks. Trasmesso dal primo aiutante di campo, il suo “umile libro” era giunto alla Maestà, che si era degnato “di percorrerlo premurosamente” (testuale). Onore già grandissimo; in più il sovrano aveva concesso un’udienza privata e il militare autore aveva potuto avere, il 9° anno di Meiji, 6° mese, 25° giorno (25 giugno 1906), “l’insperata gloria” di accostarsi e prostrarsi al Meiji Tenno Mutsuhito.
Nikudan è la traduzione esatta di proiettili umani, truppe votate a morte certa, spiega il tenente Sakurai (gravemente ferito in azione nell’agosto 1904). Per quanto lo scintillio delle baionette, l’urlo di guerra e la massa degli attaccanti giapponesi agghiacciassero i Russi, l’attacco alla fortezza di Porth Arthur s’indeboliva a poco a poco ad agosto. Malgrado lo spreco enorme di proiettili di piombo e il sacrificio di moltissimi proiettili umani all’assalto, la piazzaforte nemica si ergeva con “una potenza senza paragone”.
I generali furono costretti a ordinare, con le lacrime agli occhi, un immane sacrificio e i sottoposti a morire combattendo per la patria. Pur appoggiati dal fuoco preciso della propria artiglieria, i genieri si consumarono per troncare grovigli di reticolati, anche elettrificati, e la fanteria non poté che gettarsi risolutamente avanti alla baionetta, contro il tiro nemico accelerato, sul terreno quasi del tutto scoperto. In un’ampia valle, la distanza da percorrere completamente esposti variava da due a tre chilometri. Un battaglione venne ridotto in un giorno da 1.100 a 18 effettivi.
Ufficiali subalterni, sottufficiali, anche semplici soldati, tutti con lo spirito dei samurai, secondo la legge del Bushido. Ripetuti tentativi non fecero che gettare uomini su muoni, proiettili umani su proiettili umani, “ridurre in pezzi le ossa degli eroici compagni” e spargere il loro sangue sul campo.
Port Arthur era un termitaio brulicante; in un crescendo omerico vide perire migliaia di persone, da una parte e dall’altra, fa presente Mathlouthi. L’importanza di questo libro, sostiene, non sta solo nella preziosa testimonianza e meticolosa ricostruzione dell’evento bellico, quanto nel rivelare il modo di pensare dei giapponesi, un risultato indiretto per lo stesso Sakurai, che scrive dopotutto per sé, con scioltezza e disinvoltura, come se affidasse le proprie impressioni a un diario intimo. Sicché, quasi non volendo, offre uno strumento molto utile per decifrare alcuni degli aspetti più nascosti di una mentalità tanto diversa, criptica rispetto alla nostra. L’ufficiale pone molta enfasi sull’obbligo morale di dover cercare a tutti i costi una morte eroica; non solo non la teme, ma la invoca perfino, biasimando sé stesso per non essere stato ancora capace di seguire l’esempio degli antenati.
La psicoanalisi occidentale può anche bollare questo atteggiamento come autolesionistico se non autodistruttivo, ma il giudizio conta poco, perchè quella condotta va invece analizzata alla luce dell’etica tradizionale del Bushido, la via del guerriero, ai cui dettami l’autore dimostra di attenersi ancora scrupolosamente, all’alba del Secolo Breve.
Il prefatore si dimostra tanto esperto qual è nella storia del Novecento che buon conoscitore della cultura nipponica. Cita l’Hagakure, testo sapienziale del XVIII secolo, nel quale si legge che la via del samurai va cercata nella morte. Non gli si addice la prudenza, ma la ferma risoluzione a morire, vivendo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Difficile da comprendere
per noi, figli del pensiero debole e dei suoi mille sotterfugi, delle sue ipocrite attenuanti, terrorizzati al pensiero di dover oltrepassare la soglia dell’esistenza terrena al punto da accettare acriticamente di sottoporci a una sperimentazione di massa della quale ignoriamo ancora tutti gli esiti.

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