Lunedì 24 giugno si terrà a Roma, alle ore 18.15, la presentazione del libro d’esordio di Enrica Ferrara Mia madre aveva una cinquecento gialla (Fazi, 2024) a cura di Elisabetta Bolondi con le letture dal vivo di Silvia Bertoni.
A causa della pioggia battente sulla capitale la presentazione, prevista nello spazio aperto del Satyrus di fronte alla Galleria nazionale di Arte moderna e contemporanea, è stata spostata alla libreria Koob, in piazza Gentile da Fabriano, di fianco al Teatro Olimpico.
Vi proponiamo di seguito la recensione del libro.
“Mia madre aveva una cinquecento gialla”: la recensione
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Enrica Ferrara, napoletana che vive e lavora in ambito letterario a Dublino da più di vent’anni, esordisce nella narrativa con il romanzo dal titolo originale e dalla copertina deliziosa, Mia madre aveva una cinquecento gialla (Fazi editore, 2024): un romanzo di formazione, raccontato in prima persona dalla piccola Gina, una bambina di otto anni, nel 1980, e successivamente nel 1987, quando ne ha sette di più, per concludere la narrazione nel 2008, quando la narratrice, ormai adulta, finalmente ha compreso una serie di misteri che hanno scandito la sua infanzia e tutta la sua adolescenza.
Attraverso le vicende di una famiglia, quella di Mario e Sofia Carafa, e le loro due figlie, Betta e Gina, in Mia madre aveva una cinquecento gialla ripercorriamo una storia tempestosa che ha coinvolto l’intera storia italiana, quella del rapporto tra politica, camorra, terrorismo, negli anni ottanta del secolo scorso, che hanno provocato attentati, rapimenti, ricatti, uccisioni, a partire dal caso di Aldo Moro, i cui misteri ancora non sono del tutto chiari dopo oltre quarant’anni.
Mario Carafa era un dipendente di una banca a Napoli, membro influente della Democrazia Cristiana, desideroso di fare carriera anche per sostenere le aspirazioni di benessere economico della moglie.
Per leggerezza, per ambizione, l’uomo si trova invischiato in un gioco pericoloso più grande di lui, all’interno di faide dentro la DC, dove ci si combatte con ferocia per l’affermazione di un modello politico che vede contrapposte due fazioni: chi, come Moro, tendeva al “compromesso storico”, sono gli anni del Pci guidato da Enrico Berlinguer, e chi al contrario lo osteggiava, “con i rossi mai”, come soleva ripetere Carafa. Le cose prendono la direzione drammatica degli anni che saranno definiti “di piombo”, e Mario Carafa è costretto a fuggire, nascondendosi da chi lo vorrebbe morto. Abbandona così la moglie e le due bambine, che si trovano sole, con pochi mezzi, senza alcun appoggio, spaventate dalla sorte che può incombere su Mario e su loro stesse.
Un paio di episodi altamente drammatici segnano per sempre la crescita di Gina, intelligentissima e precoce, incapace di adattarsi alla perdita di “Papaone” che ama teneramente e di cui non riesce a spiegarsi i comportamenti a la latitanza.
Vediamo la ragazzina a scuola, difesa dal compagno Terenzio, figlio di un giudice, che la segue anche nelle sue reazioni talvolta bizzarre; insieme all’amica Sara decide di fuggire di casa e rifugiarsi a Ponza, dove spererebbe di incontrare suo padre, e la loro rocambolesca fuga in treno, verso Formia, sarà intercettata e condannata aspramente.
Nel libro ci sono tanti episodi, che mescolano la vita privata di una famiglia in difficoltà con i drammi politici e gli intrecci malavitosi di quegli anni. Tuttavia la parte più convincente dalla storia, in parte autobiografica, raccontata dalla scrittrice Enrica Ferrara, è quella che vede la crescita di Gina.
Coinvolta in storie di enorme gravità da ogni punto di vista, sparatorie, ferimenti, attentati, tuttavia conserva la candida ingenuità di chi vorrebbe vicino il padre amato, vorrebbe un po’ di serenità per sua madre Sofia, “una donna tosta”, capace di resistere alle torture che le scelte del marito le hanno imposto.
Metafora di tutta la trama due automobili, la cinquecento gialla di Sofia, contrapposta all’Alfetta blu, la macchina dei camorristi, scattante e a cinque marce, di cui è parte lo stesso Mario Carafa, pronto a nascondersi dietro un nome fittizio, “Mario Coffey”, lo stesso nome che verrà imposto alla figlie quando, in clandestinità, lo raggiungeranno in un breve e mitizzato soggiorno in Sardegna.
Nella parte finale del romanzo c’è il racconto della vacanza in campeggio, a Isola di Capo Rizzuto in Calabria, dove Sofia, Betta e Gina arriveranno faticosamente con la cinquecento stipata fino all’inverosimile, trascorreranno giornate indimenticabili: amicizie, amori, scoperte, baci, bagni notturni alla luce di un falò, finalmente serenità e spensieratezza, la vera vita per le tre protagoniste, un premio meritato: al ritorno, nella precaria cinquecento gialla, a spinta sulle montagne della Sila in un agosto infuocato, Ginetta afferma:
“Fu allora che capii che le cinque marce non servivano più. E che ce l’avremmo fatta sempre, noi tre donne. Anche se eravamo piccole, gialle e con una marcia in meno.”
Uno stile coinvolgente, quello dell’autrice, che ci porta in una sorta di montagne russe dove temi politici, umani, giudiziari, familiari, si mescolano dando vita a una narrazione incalzante, imprevedibile, talvolta caotica, come la testa della giovane e coraggiosa Gina, vera protagonista del romanzo.
Recensione del libro
Mia madre aveva una Cinquecento gialla
di Enrica Ferrara
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Mia madre aveva una cinquecento gialla”: il libro di Enrica Ferrara presentato a Roma
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