Giorgio Stefano Manzi, colonnello dell’Arma dei Carabinieri, esperto di Criminologia e Psicologia, già comandante per un decennio del Reparto Analisi Criminologiche della Scientifica dell’Arma, ha scritto per Delos Digital Profiling e Psicologia investigativa, un manuale divulgativo nato dalla sua grande esperienza di docente a corsi universitari e master, oltre che di formatore per conto del Ministero Affari Esteri e dell’Unione Europea e di consulente di gruppi di lavoro presso Organismi Parlamentari e di Governo. Il manuale si rivolge a un vasto pubblico, anche neofita della materia, e in particolare agli scrittori di gialli e noir.
Lo accompagna in questa avventura Maria Elisa Aloisi, avvocato penalista al Foro di Catania, scrittrice di gialli e responsabile della collana Odissea Crime di Delos Digital.
Gli abbiamo posto alcune domande sul libro in questa intervista.
- Colonnello dell’Arma dei Carabinieri, una professione rischiosa e difficile e un ruolo molto importante, che può incutere timore negli altri, e un atteggiamento di grande cortesia e disponibilità. Come convivono in te questi aspetti?
Mmmhhhh… Che domandona.
A essere sincero, non mi sono mai posto la domanda se la professione che svolgo possa o non possa “incutere timore” tout court. Certamente richiama una considerazione planare, scontata: le norme – tutte, da quelle penali a quelle di tratto e comportamento - vanno rispettate perché sono lo strumento più efficace per una convivenza civile. Ecco, se proprio si deve connaturare una professione come la mia, è che questa procura un richiamo continuo al rispetto del vivere civile, per fortuna molto più sostanziale che formale o di parvenza. Questo, ovviamente, incute in chi delinque una certa, come dire… ansia da arresto. Ed è un bene.
Poi la professione che svolgo non me la sono trovata tra le mani così per caso, o per retaggio familiare; l’ho scelta e l’ho coltivata. Dietro a un presupposto che forse è davvero un po’ archetipico. E penso che sia, di fondo, il medesimo che anima tanto un medico, o un maestro elementare, quanto l’autista di uno scuolabus. Credo possa rientrare nel concetto di “cura”, nel senso di “prendersi cura”. Guarda, non prendermi per un demodé o un romantico ottocentesco, perché non lo sono affatto, però un certo Costantino Nigra, nel ricordare in versi un accadimento del nostro Risorgimento, scrisse di noialtri: “Custodi delle leggi, terror dei rei, modesti ignoti eroi, vittime oscure e grandi, anime salde in salde membra…”. Dunque, è come affermi tu, siamo testimoni silenti e custodi attivi del vivere civile.
Be’, questo lo amo e mi appassiona.
- Nel manuale compare molta ironia: è una caratteristica che mantieni anche nella vita e nel lavoro? Nonostante le efferatezze a cui devi assistere o proprio come valvola di salvezza rispetto a queste?
Nooo. Assolutamente.
L’ironia per me è uno strumento di lavoro. Nel 2015, dopo quasi trent’anni d’indagini, ho chiesto di occuparmi di formazione. E la formazione, in ogni settore e campo, non può essere “tragica”.
Deve essere “seria”, completa e profonda, ma non rappresentare un’afflizione esistenziale, o non produce gli effetti formativi proposti. Vedi, spesso per rappresentare, descrivere fatti piuttosto seri, uso la mia esperienza personale e professionale. Raccontare di me, anche i momenti di imbarazzo, di indecisione o gli insuccessi, descrivendo anche le emozioni provate e sperimentate, mi è utile per far acquisire un’abilità importante: rintracciare sempre quel nocciolo fondante che è il fil rouge della vita di ognuno di noi e che ci identifica. L’ironia quindi, e l’autoironia, mi permette di far entrare il mio interlocutore “dentro” la questione trattata, non di “impararla” dall’esterno. E una volta fatto entrare l’interlocutore nel contesto, bè, allora: sotto con lo studio, senza remore.
- Sei già autore di materiale professionale, ma questo è il tuo primo libro divulgativo, alla portata di tutti. Quali sono state le maggiori difficoltà che hai riscontrato nel nuovo ambito?
La difficoltà più grande è stata la deviazione che ho dovuto dare al contenuto delle cose che ho raccontato, spostandomi verso una platea di persone interessate a informarsi ma non “obbligate a imparare”. Ti faccio un esempio, che peraltro è stato causa di un litigio inaudito con Elisa. Trattando un certo tema, la psicologia ambientale e sociale, riporto una serie di formulette, preciso banali, che uno dei teorici di riferimento, Lewin, ha elaborato sul punto.
Apriti cielo! Elisa infuriata.
E con ampia ragione, devo dire. Feci infatti leggere quelle pagine a mio figlio, studente universitario e atleta agonistico, chiedendogli se quanto scritto era o non era attrattivo. La sua risposta è stata: “Quest’argomento è interessante, però, papà, che scatole che fai con queste formule e formulette. Fai perdere il piacere di leggere!”.
Quindi Elisa aveva ragione. Però dovete comprendermi: la sensazione che ho provato tagliando e riducendo quelle parti è stata come d’inadempienza verso i lettori. Cioè, li immaginavo a contestarmi: “Ma come, Colonnello, omette delle parti? Non è da lei! Ai suoi studenti dà molto di più!”. E questo è certamente un mio difetto di scrittore.
- Maria Elisa Aloisi ha scritto l’introduzione e curato la realizzazione del manuale. Come ha funzionato questo lavoro di scrittura a quattro mani? Ogni capitolo è introdotto da un dialogo in cui battibeccate tra voi, come sono nella realtà i vostri rapporti?
Guarda, i battibecchi sono la verità. Neanche una parola di quelle scritte da Elisa è frutto di fantasia. Non ho mai litigato tanto con nessuno come con Elisa in questi mesi. Ho testimoni a decine. La stimo profondamente come scrittrice e come persona ovviamente: sa affascinare, raccontare, descrivere. E quando siamo andati a cena, con mia moglie e suo marito, è anche molto simpatica, gioviale. Insomma, nulla lascerebbe presagire che quando diventa supervisore di scritti e racconti si possa trasformare in una macchina da guerra intrattabile, e molto testarda. Lei conosce il modo di scrivere e cosa può volere un lettore, tipologicamente definito.
Io non lo so, è vero, ma questo non giustifica messaggi del tipo: “Questa frase non va bene, riscrivila. Eseguire”, oppure “Questa frase suona bene, lasciarla così. Ma non cedere ai complimenti. Non abituarsi”. Tuttavia, tutte le volte che ho raccontato fatti accaduti, o vicende giudiziarie, non ha battuto ciglio e non ha corretto neanche una virgola. E credo di sapere il perché, che è forse la ragione su cui poggia la felice riuscita di questo manuale o di altri, se vorrà: lei sa dove sono i confini tra Giorgio Stefano Manzi che si lancia per la prima volta come scrittore e Giorgio Stefano Manzi che scrive di fatti, come dire, professionali. Sui primi confini è intervenuta, perché le spetta come revisore e curatrice e ha un’enorme esperienza, sui secondi no, perché è una avvocata penalista e sa bene che un consulente in aula può impattarlo solo se ad armi pari. Altrimenti danneggia il suo assistito.
- Molto interessanti nel manuale i tuoi riferimenti alla vita comune. Da esperto conoscitore della natura umana ti capita di valutare le persone che incontri applicando le tue conoscenze di criminologia? O come riesci ad astenerti dal pensare ai possibili comportamenti criminali che potrebbero avere le persone che conosci?
Ti racconto un fatto personale, verissimo. Dovetti cambiare motorino perché il mio era un po’ sgangherato. Allora ne volli acquistare un altro con la formula “usato con usato”. Il concessionario però mi disse che il mio andava rottamato, tanto era malridotto, e di fatto ne ero consapevole. Firmai i documenti necessari per la rottamazione e pagai la moto che avevo acquistato.
Dopo qualche mese, capitò che l’assicurazione, che dovevo rinnovare, mi chiese l’attestato di rischio. Inviai quello che avevo, segnalando che però riguardava una moto rottamata.
Invece scoprimmo che quella moto – invece di essere rottamata – era ancora circolante e che era stata venduta. Il concessionario, che chiamai subito, mi offrì dei soldi per corrompermi, mi pregò di soprassedere. I reati riguardavano anche il falso ideologico e materiale commesso da Pubblico Ufficiale. Infatti finirono a processo e condannati sia lui che la titolare della agenzia ACI, Pubblico Ufficiale, che falsificò l’atto di vendita. Ciò che mi sorprese fu che tutti questi guai i due li hanno passati per una moto sgangherata venduta a un ignaro acquirente per 100 Euro.
Dicesi 100 Euro.
Bene, non bisogna pensare che i reati vengano commessi sulla scorta di chissà quale vantaggio patrimoniale o perverso obiettivo. Il reato è un’opportunità: se la cogli delinqui e arrechi un danno al consorzio civile, se non la cogli resti una persona capace di vivere con altre persone. Sottolineo “capace di vivere con altre persone”. E la capacità di vivere con altre persone la noti facilmente: c’è coerenza.
- Nel manuale a un certo punto scrivi: “Non esiste la persona perbene nata perbene, o la persona delinquente nata delinquente: esiste la persona con una narrativa o una storia di vita ben formata o al contrario mal formata”. Fortuna e sfortuna, va bene, ma pensi che in determinate condizioni tutti potrebbero diventare criminali o ha valore soprattutto la coscienza e il libero arbitrio?
Altra domandona. Il concetto di libero arbitrio, nel senso della scintilla coscientiae di Sant’Agostino, tema caro alla Scuola Classica del diritto, è una chimera, a mio modo, modo freddo, di vedere. Ciò che ci distingue dai primati è il volume encefalico che si è tanto sviluppato nell’essere umano per via delle interazioni tra gruppi, delle esperienze e dell’effetto della comunità. Con il Pan Paniscus, una scimmiotta simpatica, abbiamo quasi l’80% di DNA in comune. Alcuni di noi, pochi per fortuna, anche il 100%. La coscienza si plasma lungo diverse direttrici che non traggono ispirazione da chissà quale entità sovrannaturale. Pensiamo alla tortura come mezzo legalissimo di acquisizione probatoria nel Medioevo e nel Rinascimento. Artemisia Gentileschi, vittima denunciante dello stupro da parte di Agostino Tassi, fu torturata col supplizio dei pollici per “essere sicuri che dicesse la verità”. E nessuno all’epoca si scompose e, anzi, era tutto perfettamente nella norma. La mal formazione o la buona formazione di una vita dipende dal palcoscenico che offriamo al nuovo individuo che ne è spettatore. E le religioni, al pari della morale o dei codici penali, concorrono nell’allestimento di questo palcoscenico. La grande responsabilità di istituzioni, scuole, governi, genitori o chi ne fa le veci, opinionisti, stampa, etc. etc. è proprio questa. Sicché il libero arbitrio, la scelta tra il bene e il male, non è innata ma dipende da come organizziamo il bene e il male. I crociati, letteralmente, spanciavano a colpi di spada i Selgiuchidi in Terra Santa per prendere le monete d’oro che questi ingoiavano nel timore di essere depredati. Eppure molti crociati erano devotissimi. E poi, vi prego di notare una cosa del nostro cervello: nell’arco di circa 250 millisecondi, un’inezia in termini di tempo, una certa parte del nostro encefalo riesce a dire: “No! Questo non lo puoi fare!” a un’altra parte del cervello che vorrebbe fare una certa cosa, senza neanche farci sentire, percepire, che c’è stato un conflitto decisionale. Quindi sarebbe più corretto affermare che l’uomo esercita molto più spesso un “diritto di libero veto”, piuttosto che un “diritto di libero arbitrio”.
Pensiamo alla parola “onore” e al corteo di diversi significati che ha assunto nel corso dei secoli. Edoardo Scarfoglio sfidò a duello d’Annunzio a seguito di una querelle giornalistica. Scarfoglio aveva ridenominato la poesia dannunziana “Isaotta Guttadauro” in “Risaotta al Pomidauro”. E questi due, per una baggianata, prima si insultano e poi si prendono a spadate. Ecco, se riteniamo che prendersi a spadate possa accrescere o tutelare la nostra autostima, bè, allora non siamo proprio ben formati. Così procedendo, si potrebbe ritenere corretto accoltellare il pizzicagnolo che ci ha impacchettato 97 grammi di prosciutto, anziché 100 grammi esatti. E il nostro cervello ci suggerirebbe all’istante: “Sì, ammazzalo! Che 3 grammi di prosciutto di Parma in meno demoliscono la tua rispettabilità!”
- Un problema molto attuale di cui parli nel manuale: stalking e reato di atti persecutori. Ritieni che le tutele previste siano sufficienti? Che cosa pensi si potrebbe fare per migliorare la situazione?
Uuuuh. Questa è una brutta domanda e ti spiego il perché. Mi stai chiedendo di esprimermi su aspetti che, formalmente, non mi competono. Se il nostro legislatore dovesse decidere che da oggi è vietato usare il “Ciao” e obbligatorio usare il “Buongiorno signore, buongiorno signora”, mi atterrei alla norma, lasciando al nostro Parlamento il compito di intervenire. Quella è la sede di chi ci rappresenta in quanto cittadini. Se mi chiedi se le tutele previste sono idonee o meno, posso risponderti solo che spetta al Parlamento stabilirlo sulla base delle statistiche o della discussione parlamentare. Invece posso liberamente risponderti all’altra domanda. E per farlo ti racconto un fatto. Questa estate siamo andati in Norvegia in vacanza. Per raggiungere Capo Nord noleggiamo un fuoristrada. Centinaia di chilometri senza vedere anima viva: solo qualche renna. La velocità massima in Norvegia, in quelle strade, ampie e libere, è tra i 30 e i 60 chilometri all’ora: tutti, assolutamente tutti, rispettano i limiti. Uno sfinimento di lentezza.
Capita che su una ampia strada, limite 60 km/h, davanti a me, c’è un pullman che va a 35 km/h esatti. Dietro di me, una macchina. Davanti a tutti noi: nessuno per chilometri.
Decido di superare e tocco gli 80/90 km/h per un centinaio di metri. Scatta l’ansia e mi chiedo cosa avranno pensato i tipi del pullman e della macchina: “Pronto? Polizia? Un pazzo scatenato con una jeep ha superato il limite di velocità!”, poi tra me e me mi dico: “Sicuramente un diamine di satellite avrà rilevato la targa. Appena mi fermo trovo la polizia e mi sequestrano pure la camicia”.
Dopo un paio di giorni invece, come Checco Zalone nel film, inizio a non tollerare gli stessi norvegesi che magari avevano parcheggiato con un quarto di ruota fuori dalle strisce.
Che cosa era accaduto? Che avevo resettato il mio set di significati e comportamenti, adeguandomi a un concetto che è molto caro a un certo studioso, Mario von Cranach. Si chiama “teoria della azione”: ci muoviamo e decidiamo di agire anche in relazione a ciò che il mondo esterno si aspetta da noi. Bè, finché avrà successo una canzone il cui testo è “Stupro la Moratti e mentre mi fa un p… le taglio la gola col taglierino” la vedo difficile che qualche articolo del codice penale agisca davvero come deterrente sul piano dei significati delle relazioni. Siamo anche quello che la prevalenza della società, e del mercato soprattutto, vuole che siamo. Gomorra piace molto. Only Fans è sdoganato. C’è più cocaina nelle fogne milanesi che nelle alture colombiane. Luciano Liboni era un eroe-antieroe cui dedicare canzoni e il cui nome s’incide sulle pistole, che siano giocattolo non importa, così come la latitanza diviene uno stato di patimento un po’ Sturm und Drang, come l’essere innamorati.
- Nel capitolo L’interrogatorio evidenzi i problemi di riferimenti alle procedure note attraverso le serie TV americane che spesso affliggono i romanzi gialli ambientati in Italia. Come potrebbe approfondire l’argomento uno scrittore che volesse documentarsi seriamente?
Bè, parlando di scrittori, ce ne sono diversi che gravitano nel campo del diritto. Tuttavia anche scrittori, che sono giuristi per formazione, devono fare i conti con esigenze proprie della narrativa. Voglio dire, come si può raccontare un sopralluogo, che tecnicamente si chiama “accertamenti urgenti su luoghi, cose o persone”? Ecco, nessuno scrittore, neanche se è un magistrato di lunga toga, userebbe una tale perifrasi.
Propongo un parallelo: si tratta della differenza tra Star Trek e Interstellar. La velocità a curvatura, cui ogni tanto la Enterprise viaggia, è una fantasia tecnica impossibile da realizzarsi. È un’idea, una soluzione narrativa, non un futuro. Il collasso spazio tempo dovuto all’ultra gravità raccontata in Interstellar è invece possibile, dimostrato teoricamente ed empiricamente. Ambedue sono film di fantascienza, ma il primo inverosimile, il secondo verosimile.
Ecco, un astrofisico scriverebbe Interstellar.
Invece un consiglio concreto che posso suggerire è quello di farsi un giro in tribunale, frequentare le aule di giustizia. La maggior parte delle udienze sono pubbliche e può risultare interessante anche sul piano umano. E poi naturalmente, a rischio di sembrare autoreferenziale, ci sono testi come quello che proponiamo che possono essere d’aiuto.
- Com’è il tuo rapporto con la lettura e in particolare con la lettura di gialli e noir? Dopo tutte le storie di tutti i tipi che incontri nel tuo lavoro c’è ancora qualcosa nei romanzi che desta il tuo interesse e riesce a sorprenderti?
Pari a zero. Ho letto pochissimi gialli, praticamente nessuno. Vedo parecchi film, invece, a carattere storico-ricostruttivo. E leggo molti testi dello stesso tipo. Una delle ragioni per cui mi manca mio padre è che era un profondissimo conoscitore di storia, tra i più ferrati che abbia mai conosciuto in vita mia. Una volta gli chiesi di suggerirmi qualcosa che potesse tenere insieme i concetti di autorevolezza, stima e potere privato. E mi suggerì un episodio della vita privata di Garibaldi (quando scrisse un’istanza al Re per vedere annullate le nozze tra “Garibaldi Generale Giuseppe e Raimondi Marchesa Giuseppina”), che divenne il pretesto per la premessa su un lavoro proprio sul potere.
Insomma, preferisco i resoconti giudiziari, le ricerche nel settore delle neuroscienze, le divagazioni di alcuni cari amici su temi di criminologia e dintorni. Ti confesso una cosa di cui sono super convinto: nella vita si è sempre un lifelong learner, un perenne studente. Io avverto spesso il bisogno di esserlo: per questo mi rivolgo a contesti molto aderenti alla realtà, scientifica, storica o criminologica. La vita di un mezzo criminale inglese diventa la ragione per cui vado a studiarmi alcune investigazioni di Scotland Yard degli anni ’80, negli aspetti infinitesimali, che poi mi hanno portato a scovare le lettere di Geoffrey Prime, abusante di bambini e spia al soldo dei russi, amico per la pelle di un irlandese, a capo di un certo gruppo ideologico. Ecco, ho ammesso pure di essere un ficcanaso senza limiti. E più mi metti ostacoli più mi incaponisco. Giuro: una volta sfruttai un’occasione per andare a San Pietroburgo per vedere dal vivo, anzi dal morto è più corretto, il punto esatto in cui Jusupov gettò nella Neva il corpo di Rasputin. Volevo verificare la distanza dall’uscita del palazzo Jusupov, perché non mi tornava il tragitto descritto nei verbali. Infatti lo portarono in macchina. Non trascinandolo come disse Jusupov all’inizio.
- Il titolo di un capitolo del manuale è Narrative criminali e parli di trame e di incidente scatenante. Com’è il tuo rapporto con la scrittura? Pensi che ora o in futuro potresti prendere in considerazione l’idea di scrivere un romanzo?
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Lo escluderei, in base a quello che ho raccontato finora di me. So bene quali sono i miei punti di forza, che non disconosco, ma so bene anche quali sono i miei limiti. E tra questi sicuramente c’è il fatto che la scrittura mi serve perché fissa, cristallizza e mette ordine tra le cose da dire, da fare o appena studiate o apprese. Potrei dire che ciò che scrivo sono più resoconti che non abili e affascinanti esercizi di parole e verbi. Posso informare un lettore, magari anche bene, ma non credo proprio che sarei in grado di tenerlo sveglio la notte per leggere e scoprire chi è l’assassino o se due personaggi si lasciano o si sposano. È molto più facile invece che lo lasci insonne e nervoso a pensare se ha fatto bene o male a comportarsi in un certo modo, alla luce di una ricerca fatta da un qualche psichiatra turco di origine indiana su un campione psichiatrico di popolazione sud-africana trasferitasi in Groenlandia nei primi del ‘900. Un incubo.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Profiling e Psicologia investigativa”: intervista all’autore Giorgio Stefano Manzi
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