Vasile Alecsandri: cenni biografici
Vasile Alecsandri è un autore che ha avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo della letteratura romena moderna, tanto da venire considerato la più importante personalità della cultura umanistica del paese prima di Mihai Eminescu (1850-1889).
Poeta, drammaturgo e raccoglitore di canti popolari, egli nacque nella provincia di Bacău, il 21 luglio 1819, da genitori benestanti. La sua famiglia si riteneva erroneamente di origine veneziana, una convinzione infondata di cui però, nel corso della sua vita, l’intellettuale non dubitò mai. Questa notizia, per altro, fu creduta veritiera anche dai suoi primi biografi, basti pensare che Angelo De Gubernatis (1840-1913) la riportò nel suo Dizionario biografico degli scrittori contemporanei (1879) e in Storia della poesia lirica (1883).
Nel 1828 si spostò a Iași per studiare alla scuola francese e nel 1834 raggiunse Parigi, ove proseguì il suo percorso di formazione; dapprima indeciso, scelse infine di cimentarsi nella sua vera passione: quella per la letteratura.
Fu un grande viaggiatore e visitò località africane e asiatiche, ma volle vedere anche Venezia e l’Italia, terra in cui strinse importanti legami e che i patrioti romeni consideravano inscindibilmente congiunta alla loro Patria, poiché culla della latinità. Si possono citare le parole usate da Guillaume Apollinaire (1880-1918) nel suo romanzo le Undicimila verghe (1907):
“Bucarest è una bella città in cui si direbbe che Oriente e Occidente giungano a confondersi. Da un punto di vista puramente geografico si è ancora in Europa; ma si è già in Asia rispetto a certe usanze del paese, ai turchi, ai serbi e alle altre razze macedoni di cui si possono scorgere, nelle strade, pittoreschi esemplari. Tuttavia è un paese latino; i soldati romani che lo colonizzarono avevano senza dubbio il pensiero costantemente rivolto a Roma, allora capitale del mondo e capoluogo di tutte le raffinatezze. Questa nostalgia dell’Occidente si è trasmessa ai loro discendenti: i rumeni pensano sempre a una città in cui il lusso è naturale e la vita è allegra”.
La passione italiana di Alecsandri trova espressione soprattutto nella sua novella La fioraia di Firenze.
Con altri letterati, nel 1844, l’autore organizzò il teatro nazionale moldavo e, quattro anni più tardi, partecipò attivamente al ’48 romeno, componendo poesie politiche e divenendo una delle guide del movimento unitarista. Col fallimento della rivoluzione, dovette fare ritorno in Francia, dove continuò a dedicarsi ai versi e ai testi teatrali, ma soprattutto alla rielaborazione e alla pubblicazione del materiale folklorico romeno. A lui si deve la prima trascrizione di ballate popolari come quella di Mastro Manole e della Miorița, confluite nel volume Poesie popolari, ballate, canti antichi, edito nel 1853.
Verso la fine della sua vita fu ambasciatore plenipotenziario a Parigi, morì a Mircești il 22 agosto 1890.
La Miorița: un capolavoro della poesia popolare
Il canto popolare romeno più celebre è stato pubblicato per la prima volta da Alecsandri nel 1850, sulla rivista “Bucovina”: si tratta della Miorița, cioè l’agnellina. Nel corso della storia sono state molte le interpretazioni e le sovra-interpretazioni politiche della poesia, ma il primo a inaugurare questa tendenza “ideologizzante” è stato proprio il suo “scopritore”. In Italia la Miorița ha avuto un certo successo ed è stata conosciuta e apprezzata anche da Giovanni Pascoli, che certamente ne gradì le descrizioni bucoliche.
La storia raccontata dal componimento folklorico è quella di un atroce fatto di violenza: una pecora veggente rivela al suo giovane padrone che altri tre pastori sono intenzionati a ucciderlo per rapire le sue greggi e derubarlo. Il ragazzo accetta di morire senza opporsi al fato, e lascia delle precise indicazioni su come desidera essere sepolto.
Alecsandri presentò al pubblico “la pecorella” all’interno di un articolo che ideò a Parigi, dopo la sconfitta del ’48, e che fu pubblicato a puntate nei due anni successivi. Il brano che ci interessa è scritto in forma di lettera:
“Ti ricordi una sera di luglio dell’anno scorso, quando ci eravamo radunati con un gruppo di amici presso la vostra tenuta, nella poetica Cernăuca? N***, R***, C***, tu ed io eravamo usciti dalla corte con l’idea di andare a caccia di anatre e arrivati sulle rive dello stagno vicino casa ci eravamo sdraiati sull’erba, in attesa che le anatre arrivassero davanti alla bocca del fucile”. La successiva descrizione romantica del paesaggio è solo una premessa prima di entrare nel vivo dell’argomento dell’articolo, ogni buona introduzione parte da distante prima di portare il lettore al fulcro della narrazione: “Allora, come sempre, iniziammo tutti e quattro una lunga e interessante discussione a proposito del popolo romeno. Uno di noi parlò della sua storia, tanto ricca di imprese eroiche, da poter ispirare centinaia di romanzi storici, se anche fra noi fosse nato un Walter Scott. Un altro fece l’analisi dei proverbi che aveva raccolto dalla viva voce del popolo […]. Un terzo descrisse le usanze e i costumi dei romeni, confrontandoli con quelli degli antichi romani, e in più punti ci dimostrò che gli abitanti delle nostre terre avevano conservato tracce delle antiche tradizioni, più di quanto non facessero gli attuali cittadini di Roma [sic!]. Infine, arrivò il mio turno e fui pregato di recitare la ballata dell’Agnella”.
I primi versi parlano di un pascolo erboso, una bocca di paradiso, e tali parole offrono al folklorista l’occasione di esaltare l’amore dei romeni per la loro terra:
“Quante invasioni di barbari sono passate sopra il povero paese! Quanti schiaffi celesti si sono abbattuti sul povero romeno!...e nonostante questo, il popolo è rimasto saldo al suo posto, conservando la propria nazionalità”.
Il letterato usa poi le rime successive per spiegare i cicli della transumanza e i riti della vita semplice dei suoi compatrioti e dei mitici re-pastori dei secoli andati; entrano così in scena i tre pastori assassini: uno moldavo, uno transilvano e uno vranceano. Alecsandri si affretta a ribadire la romenità della Transilvania, abitata (principalmente) da genti latine, ma occupata dagli ungheresi:
“Le memorie storiche, le imprese dei nostri antenati, e la statistica stessa ci vengono in aiuto, giacché in Valacchia e in Moldavia ci sono 4000000 romeni, in Bucovina oltre 200000, in Transilvania, Banato e Ungheria oltre 3000000, in Bessarabia più di 700000, e infine sulla riva destra del Danubio più di 100000”.
Nella profezia dell’agnella, il pastorello innocente sarà ucciso perché gli altri invidiano le sue ricchezze, ma egli andrà incontro alla morte con il tipico fatalismo che connota il popolo romeno: uno spirito di sacrificio che sconfina nel desiderio di immolarsi. In questo passaggio, tuttavia, il romantico inserisce un passo di sua invenzione, assente nelle versioni popolari, in cui innesta il tema del matrimonio con la morte:
“La morte è una bella principessa che regna sull’intera umanità, e allo stesso tempo è lei la sposa del mondo! Ogni uomo è fidanzato con la morte dal minuto in cui viene alla luce”.
È davvero bizzarro che Alecsandri abbia scelto come emblema dell’unità del suo popolo una storiella in cui persone provenienti da diverse zone della Romania uccidono un loro connazionale, ma questa è solo una delle tante forzature a cui la Miorița è stata sottoposta sino a tempi anche vicini a noi. Più che un mito fondativo, questo fratricidio ci ricorda Caino e Abele. Un elemento realmente tradizionale è invece quello del funerale, nell’epica orale romena esistono i Cîntecul zorilor, che sono i canti della sepoltura.
“Di’ al vranceano/ e al transilvano/ di seppellirmi/ qui vicino/ nella stalla delle pecore,/ che io resti con voi;/ dietro all’ovile,/ che mi sentano i cani.” chiede il padrone alla pecora, “Questo tu di’ loro,/ e al capo mettimi/ uno zufolo di faggio,/ che dice cose care;/ uno zufolo di osso, che dice cose dolci;/ uno zufolo di sambuco,/ che dice cose di fuoco!/ Il vento, quando soffierà,/ e le pecore, si stringeranno,/ mi piangeranno/ con lacrime di sangue!/ Ma tu, che mi hanno ucciso,/ non glielo dire a loro./ Ma di’ proprio così/ che mi sono sposato/ con una bella regina/ fidanzata del mondo”.
Trascurando l’accennata invenzione di Alecsandri, con le immagini poc’anzi citate si configura un tema specifico, che gli etnografi definiscono “nozze postume”, ossia la rappresentazione della morte come un matrimonio, o il conseguimento di uno sposalizio dopo il trapasso. Si tratta di un rituale che si ritrova in varie culture, dagli arabi ai cinesi, ne parla già Marco Polo, in un famoso passaggio del Milione riguardo i costumi della Cina settentrionale:
“Ancora vi dico un’altra loro usanza, cioè che fanno matrimoni tra loro di fanciulli morti, cioè a dire: uno uomo hae un suo fanciullo morto; quando viene nel tempo che gli darebbe moglie se fosse vivo, allotta fa trovare un ch’abbia una fanciulla morta che si faccia a lui, e fanno parentado insieme”.
Il racconto del mercante veneziano è certamente una fonte datata e da utilizzare con cautela, nel suo saggio La vita quotidiana in Cina ai tempi di Marco Polo, però, Jacques Gernet (1921-2018) vi ha osservato diverse concordanze con le testimonianze cinesi coeve. Oggi, l’usanza delle nozze postume è ancora attestata in diverse province: Shaanxi, Shandong e Shanxi. Come si sarà intuito, tuttavia, la tradizione romena è differente: come si nota nella Miorița il matrimonio non è stretto con un partner reale, ma – apparentemente – con la natura (si può parlare di nozze cosmiche, a cui partecipano tutti gli elementi). Comunque, basta un minimo di dimestichezza con le Sacre Scritture per intuire come questo costume sia del tutto inconciliabile con il Cristianesimo (“Alla risurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo”, Matteo 22,30): ciò indica il retaggio di rituali precedenti e la presenza nei canti romeni di un sincretismo di elementi cristiani e precristiani.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Profilo biografico di Vasile Alecsandri e un commento alla Miorița
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