Recit (racconto, narrazione), datato 1956, è l’ottavo componimento, costituito da complessivi 128 versi in distici alessandrini, della raccolta Le ceneri di Gramsci (già pubblicata su “Botteghe oscure” nel settembre 1956) di Pier Paolo Pasolini.
Giacomo Magrini, in un saggio del 1994 (“Pasolini Spitzer Berolucci Recit senza accento”, in “Paragone. Letteratura”, ottobre-dicembre), vi aveva intravisto un filo di collegamento con il Récit de Tehéramène contenuto nell’atto quinto della Phédre di Racine, filtrato dalla lettura di Spitzer.
Recit si nutre proprio dei legami indicati dall’autorevole critico e il lettore potrebbe giovarsene per meglio conoscere questa poetica pasoliniana attraverso il confronto come arricchimento di una cruda vicissitudine in anni fortemente a fosche tinte.
L’ispirazione va ad ogni modo cercata in una notizia vissuta con tristezza: Attilio Bertolucci, informato da Livio Garzanti alla fine del dicembre 1955, a sua volta lo rende partecipe della denuncia per oscenità del romanzo Ragazzi di vita (gli aveva dedicato Pasolini settimane di intensa revisione nel maggio-giugno 1955), a quanto pare proposta dal Ministro degli interni Fernando Tambroni.
Malgrado l’assoluzione dell’editore e dell’autore dall’accusa di corruzione per minori, il dolore permane e viene attenuato dal potere della scrittura come dimostra lo splendido poemetto Recit (1956), tratto da Le ceneri di Gramsci (Garzanti, 1957).
Scopriamone testo, analisi e commento.
Recit di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto
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La comunicazione dell’amico, avvenuta a Roma nel quartiere Monteverde, si rivela nei primi tratti del poemetto, scritto appunto in quei giorni.
Al linguaggio particolarmente analitico, consono al genere narrativo dell’autobiografia, si accompagna la descrizione della vita che nella zona si svolge:
Com’era nuovo nel sole Monteverde vecchio! Con la mano ferito, mi facevo specchio
per guardare intorno viali e strade in salita vivi di gente nuova nella sua vecchia vita.
Giunsi nella piazza, accaldato e tremante, ché gelo e sole insieme il quartiere accecante
sbiancavano con muta ed estasiata noia. Ricco era il quartiere, ma popolana gioia
ne invadeva interrati ed attici con voci vaghe ma violente, canti lieti e feroci
di garzoni, di serve e d’operai perduti su bianche impalcature, tra bianchi rifiuti.
Chiara l’analogia tra il messaggero Théramène, che riporta la descrizione della morte di Hipplyte, e Attilio Bertolucci che lo informa dell’inquietante denuncia.
Questo il motivo per cui la scrittura tende all’allegoria, rovesciando nel suo contrario la luce idillica della vitalità:
Il lume del mattino fu lume della sera.
È lo sguardo ad andare fino in fondo, ad inseguire ogni istante della fragilità avvertita nella propria solitudine:
Rifui solo: seguii con l’occhio l’auto / sparire con lui, nell’aria che ogni smalto // aveva perso.
A seguito dell’annuncio dell’amico, si sente estraneo alla realtà:
Com’era estraneo ora, ogni allegro grido, / per chi, ora andava lungo un diverso lido.
Come “ignaro animale, stanato, inseguito”, il poeta intreccia il suo sentire con la vita umiliata del sottoproletariato.
La sua storia si fa transpersonale: i rumori dei cantieri vengono vissuti come mutamento radicale della società, mentre il “fervore di gente umiliata” ha un “clamore che la storia non sente”.
I primi 64 versi si chiudono con il ritorno a casa:
Ed ecco la mia casa, nella luce marina / di via Fonteiana in cuore alla mattina: / la mia tana, indifesa, cieca di speranza, / dove bruciare l’ultima remora che mi avanza.
L’auto-osservazione è spietata, segnatamente legata ai mostri interiori (le cagne, con il loro latrato). Pasolini può così percorrere itinerari tortuosi senza garanzie e nel modo più crudo e tenebroso:
Entro e mi rinchiudo, muto e spento come / un impiccato solo col suo corpo e il suo nome.
Il sole, anche se svenato, con dolcezza nella stanza continua a filtrare i suoi raggi e all’astro si rivolge perché faccia “spirare”:
l’urlo delle cagne, che strozzate e stolte / promettono disprezzo, disperazione e morte…
Ecco che accade qualcosa di sorprendente autenticità. Trova ora la rivelazione dell’ineluttabile suo destino e della sua sorte espressa in pochi versi, dove accenna alla propria diversità.
Ma perché costringermi ad odiare, io / che quasi grato al mondo per il mio male, il mio / essere diverso – e per questo odiato – / pure non so che amare, fedele e accorato?
Da qui, dall’avere vissuto attimi liberatori, la consapevolezza mostra uno stato d’apertura alla vita. La realtà non va ignorata ed egli recupera energie nel momento in cui lo sguardo, mescolandosi con il brulicare della quotidianità, attutisce i timori dei minacciosi fantasmi psichici. Sembra che ci sia un punto di fuga, di rivincita, di riscatto.
Interrogandosi, prova uno slancio che l’allontana dall’odio e da ogni sorta di rancore.
E, però, lo so bene!, se smaniano angosciosi
i latrati in quel sole, tra i rioni festosi,
e minacciano morte, sordidamente ossessi
contro chi tradisce perché è diverso, essi,
nell’aria troppo dolce, nell’umana innocenza
non sono che i messi della mia coscienza.
Gli inquisitori sono bruciati nel rogo della verità della poesia, di una poesia sacrale: rivelatrice di una cognizione che sa coinvolgere l’innocenza del cuore e della mente oltre l’ostacolo.
La scrittura, invece di condannare, fa ritrovare lo spazio dell’interrogazione interiore, la quale conduce alla lungimiranza della “coscienza” che il Pasolini della cronaca e delle descrizioni saggiamente individua, trascendendo la cattiveria subita.
Sembra che tale dimensione sia la vera e reale dichiarazione poetica che ha raggiunto tratti esemplari dell’umana esistenza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Recit”: l’autoanalisi rivelatoria di Pier Paolo Pasolini
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