Quando si fa il confronto fra la religione Greca e quella Cristiana, la prima cosa che viene in mente è il numero delle divinità adorate: diverse in quella Greca, rigorosamente una sola (il Dio Unico) in quella Ebraico-Cristiana.
Tuttavia, le differenze, come si può immaginare, non si limitano a questo aspetto, che già di per sé è rilevante. Riguardano, invece, l’identificazione psicologica che gli antichi Greci facevano di se stessi.
Questa identificazione scaturiva dal confronto con le Divinità, attraverso il quale i Greci elaborarono (ed accettarono), il concetto di caducità umana, e il limite che questo comporta.
Se le divinità erano considerate immortali ed immutabili, degli uomini, al contrario, si sottolineava l’aspetto transitorio, tipico delle creature destinate a svanire, a dissolversi con il tempo. Infatti, venivano spesso chiamati "i mortali". Questo confronto con le divinità fu utile ai Greci per accettare di essere limitati e destinati a perire.
La religione Giudaico-Cristiana, invece, pone l’essere umano in una situazione diversa. Il corpo è sì "polvere" destinata a svanire, ma, in compenso, questa "carne" che è l’essere umano trova appagamento nell’immortalità dell’anima, che, dopo la morte, sarà accolta in un Aldilà organizzato. Il Cristianesimo, infatti, ordina molto bene l’Aldilà, inserendo i concetti di Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ma, soprattutto, nell’Aldilà cristiano tutti i morti conservano la propria identità, che anzi, in caso di buona condotta sulla terra, viene premiata.
Non è così per i Greci del periodo di Omero. Per loro l’Aldilà non è un posto organizzato, bensì un Caos primigenio, dove tutto si perde. I morti non conservano la propria identità dopo il trapasso, ma, per usare un’espressione di Jean Pierre Vernant, si tramutano in "teste vuote", prive di memoria e di individualità. Ma, soprattutto, nell’Oltretomba pagano non esiste una stretta proporzionalità fra la condotta terrena e la vita dopo la morte. Chiunque muoia, entra nel regno di Ade, dove predomina il Nulla assoluto, dove nessuno ricorda e sa (a ribaltare questa concezione furono le dottrine Orfiche e poi Platone).
Tutti morti, a prescindere dalle azioni compiute sulla terra, sono mere ombre, senza più personalità; in altri termini, sono poltiglia indistinta.
A conferma di questo possiamo citare le avventure di Ulisse che, raggiunto il regno dei morti, non può parlare subito con loro senza prima averli in parte rianimati con il sangue di ariete, la bevanda che l’eroe dà all’indovino Tiresia. Come messo in luce da alcuni importanti filosofi, come Umberto Galimberti, la tecnica moderna non ha origini Greche, ma Giudaico-Cristiane. Infatti, la Bibbia tratteggia un uomo, che, grazie alla Divinità, riesce a dominare l’ambiente, a farlo suo, a piegare la Natura ai suoi interessi:
“E Dio disse: facciamo l’Uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare, e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, e su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. (Genesi, 1-26).
La Natura, per i Greci, non è creata da nessun Dio, non è stata fatta per gli uomini, e, soprattutto, non esiste nessun patto in tal senso con le divinità, che sono libere di agire a proprio piacimento, anche contro gli umani, se lo desiderano. Gaia, la terra, non è stata creata da Zeus o da Crono, ma è emersa dal Caos. Dal Caos sono nati, oltre alla terra, la natura, le divinità e gli uomini.
Che cosa ricaviamo da tutto questo? Ricaviamo che gli antichi Greci erano saggi non perché provvisti di molta fantasia (necessaria peraltro ad inventare i miti), ma perché avevano capito e fatto loro il concetto del limite, che nessun essere umano può mai valicare senza perdersi.
La tecnica moderna, frutto dell’ideologia Ebraico-Cristiana, ci insegna invece un’altra cosa: che possiamo dominare su tutto, che possiamo abbattere lo spazio (che con il cellulare ci sembra sparito).
Ma è poi vero tutto questo? Certamente no. Il delirio di onnipotenza che ci regala la tecnica è solo un’illusione, e lo capiamo quando si verificano grandi calamità, come i terremoti, oppure quando dobbiamo rassegnarci di fronte ad una malattia incurabile.
L’uomo moderno non è in grado di accettare i propri limiti perché e mal allevato dalla tecnica; in compenso, quando si accorge che i limiti esistono (e se ne accorge spesso) cade in depressione. Che fare allora?
Semplice, tornare a studiare gli antichi Greci. Uno studio ragionato ed elaborato in tutte le scuole, e per gli adulti l’organizzazione di incontri su questi argomenti. Solo così potremo vivere meglio ed accettare la nostra natura finita, la nostra limitatezza rispetto all’Universo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Religione Greca e Cristiana: la differenza non è solo il politeismo
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