Il 4 dicembre 1679 moriva Thomas Hobbes, filosofo inglese autore del Leviatano. Il nome del filosofo inglese è legato in modo indissolubile al Leviatano, la sua opera principale, dove emerge una concezione politica nuova che, insieme a quella di Machiavelli, segnerà la nascita della modernità.
Figlio della prima vera rivoluzione della storia e gemello della paura, Thomas Hobbes con il suo pensiero tenta di scacciare gli spettri della morte, della guerra e dell’insicurezza con una soluzione teorica radicale ed estrema che ha, però, come unico obiettivo quello di garantire una pace duratura.
La filosofia di Thomas Hobbes offre all’Assolutismo una giustificazione nuova e stringente: il diritto su tutto, il potere assoluto che spetta tendenzialmente al monarca non è più giustificato dal volere divino ma nasce dagli uomini. È questa la chiave teorica che apre la strada alle principali teorie politiche dei secoli successivi: non solo il liberalismo ma, più sorprendentemente, anche il socialismo.
A 235 anni dalla morte, ripercorriamo vita e pensiero del filosofo Thomas Hobbes.
Thomas Hobbes: la vita del filosofo del Leviatano
Hobbes nasce nell’Inghilterra meridionale il 5 aprile 1588: quando l’Invincibile Armada di Filippo II si sta avvicinando al suolo inglese, la madre intimorita lo partorisce prematuro e ciò lo porterà ad affermare che era stato dato alla luce insieme alla paura, sua gemella.
Figlio di un pastore anglicano che aveva abbandonato la famiglia, Hobbes studia arti liberali nella celebre università di Oxford e diventa poi precettore del figlio di un nobile. Questa esperienza lo mette in contatto con personaggi illustri, come Francesco Bacone, del quale sarà allievo e segretario personale.
I numerosi viaggi in Europa sono l’occasione per conoscere alcuni tra i maggiori intellettuali del tempo, in particolare Galilei e Mersenne, che gli faranno apprezzare le principali conquiste della rivoluzione scientifica; ad essi affianca l’approfondimento della storia, soprattutto greca, e della matematica.
Tornato in un’Inghilterra prossima alla guerra civile, teme per il suo appoggio alla monarchia e decide quindi, nel 1640, di trasferirsi a Parigi dove soggiornerà per gli undici anni successivi.
Nel 1651 rientra in Inghilterra dove, oltre a osservare il regime di Cromwell, sarà impegnato in polemiche di varia natura prima con i monarchici che lo accusavano di tradimento, poi col vescovo Bramhall, riguardo alla materialità di Dio e alla libertà, poi con i rappresentanti della Camera dei Comuni che additano le sue opere come la causa della peste e del grande incendio di Londra. Muore molto vecchio nelle campagne del Derbyshire, il 4 dicembre 1679.
Il Leviatano e le altre opere di Hobbes
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Il Leviatano, capolavoro di Hobbes, nasce da una circostanza storica ben precisa, la decapitazione di Carlo I Stuart durante la prima rivoluzione inglese del 1649, e viene pubblicato due anni più tardi, nel 1651.
Il Leviatano non è però l’unica opera di Hobbes: negli anni precedenti aveva mosso originali critiche a Cartesio, nelle terze Obiezioni alle Meditazioni Metafisiche (1641), su questioni di ontologiche e di teoria della conoscenza, mentre Il cittadino (1642) dimostra che, già da alcuni anni, aveva cominciato ad elaborare una concezione dello Stato e della politica che si basava sul meccanicismo ossia sull’idea che la natura, come anche la società, per lui, fosse regolata da leggi scientifiche simili a quelle della dinamica, che regolano i corpi e il loro movimento.
In opere successive, come Il corpo (1655) e L’uomo (1658), Hobbes tematizzerà compiutamente la sua concezione della scienza e della natura e la sua antropologia.
Opere minori, non tutte giunte a noi, riguardano le dispute teologiche, la cultura classica e argomenti storici; ad esse si affiancano alcune traduzioni di classici greci, realizzate nell’ultima parte della sua vita.
Il pensiero di Thomas Hobbes: dalla visione etica allo stato di natura
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La visione politica di Hobbes si può comprendere solo attraverso alcune indispensabili premesse che riguardano la natura e l’uomo e il suo modo di interagire con il mondo circostante.
Il filosofo inglese è l’alfiere di una visione materialista che non ammette alcuna realtà incorporea: tanto la natura che l’uomo sono fatti di sola materia regolata da leggi fisiche e meccaniche e da stringenti relazioni di causa-effetto.
Il bene e il male non sono valori assoluti né possono essere considerati come dei fini ultimi da perseguire; il bene è sempre soggettivo e relativo a precise situazioni: bene è cioè che si ama e si desidera, dice Hobbes, mentre male è ciò che si odia e si rifugge.
Date queste premesse non c’è alcun posto per la libertà nel sistema di Hobbes: quando desideriamo qualcosa la nostra volontà viene mossa da un fattore esterno, non c’è libertà del volere e l’unica libertà possibile coincide con l’assenza di impedimenti esterni.
Hobbes elabora quindi un rigido determinismo: la volontà è sempre determinata da cause o motivi che trovano posto nella natura e ciò è vero anche per le azioni che sembrano più spontanee e casuali.
La natura umana ha poi due caratteristiche essenziali dal quale deriva tutta la sua concezione dello stato e della società, la politica per Hobbes, infatti, come la matematica è una scienza a priori, una scienza deduttiva: parte da premesse o, meglio, in questo caso, da postulati generali da cui poi, attraverso il solo ragionamento arriva a delle conclusioni che si vorrebbero, almeno in linea teorica, certe.
L’uomo, dunque, per Hobbes, è connotato da una bramosia naturale, da un desiderio smodato di godere da solo di beni anche comuni, e da una ragione naturale che lo porta a ritenere la morte il peggiore di tutti i mali. Per dirla in modo più semplice, l’uomo di Hobbes è naturalmente cattivo, non ha il bisogno di stare con gli altri e quando lo fa è solo per il suo tornaconto personale.
Questi due tratti fondamentali dell’antropologia di Hobbes si innestano, poi, sullo stato di natura. Hobbes vuole fondare, con la sua filosofia, uno stato che garantisca la pace e per fare ciò ricorre, come altri giusnaturalisti prima di lui, a un concetto teorico ossia a una condizione ideale (che non si è mai realmente realizzata veramente ma che è assimilabile alle società dei selvaggi o agli stati in condizione di guerra) che precede lo stato regolato da leggi (lo stato positivo) e che prende il nome di stato di natura.
L’analisi dello stato di natura e del comportamento dell’uomo che lo popola, l’uomo di natura, consentirà di capire come si giunge a uno stato positivo, ovvero allo stato propriamente detto e come è possibile fondarne uno che garantisca la pace duratura.
L’uomo di natura, allora, proprio perché animato da una bramosia irrefrenabile estende il suo dominio su tutti i beni che sono beni comuni perché nello stato di natura non si dà proprietà privata come avviene invece nello stato positivo. Questo non è il comportamento di un singolo uomo ma di tutti gli uomini di natura che, in tal modo arriveranno presto al conflitto, alla guerra di tutti contro tutti, dove l’uomo diventa un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus), come Hobbes afferma rendendo celeberrima un’espressione dell’Asinaria di Plauto.
La guerra, si sa, però non piace a nessuno e anche l’uomo di natura, grazie alla sua ragione, ci mette poco a capire che quella condizione, oltre che essere perennemente insicura, lo esporrà facilmente al rischio di una morte pressoché certa. Gli uomini di natura decidono allora di allearsi e di stipulare un patto o contratto, che si articola in una serie di precetti dedotti razionalmente ossia in delle leggi di natura. È opportuno richiamare almeno le tre principali, tra le molte che Hobbes formula:
- che ciascuno debba cercare la pace (…);
- che si sia disposti (…) a rinunciare (…) al diritto su tutto;
- gli uomini debbono mantenere i patti che hanno fatto;
Lo stato positivo e i poteri del Leviatano
Come Hobbes afferma il contratto è “il trasferimento reciproco di un diritto”; ora se bisogna rinunciare al diritto su tutto, come prescrive la seconda legge, che fine fa questo diritto? Viene, appunto, trasferito o, meglio, traslato ad un altro soggetto, estraneo ed esterno al patto stesso, che lo eserciterà proprio per garantire la pace. Il patto, o contratto, stipulato dagli uomini – che è allo stesso tempo un patto di unione e un patto di sottomissione ed è anche irreversibile, pena il ritorno alla condizione naturale di guerra - segna allora l’uscita dallo stato di natura e la nascita dello stato positivo, dove vigono leggi scritte e dove il diritto su tutto è affidato ed è esercitato dal Leviatano.
Con questa parola, che non è altro che il nome di un mostro biblico, Thomas Hobbes allude soprattutto, ma non esclusivamente, a un monarca (potrebbe trattarsi anche di un’assemblea come il Parlamento) che ha un potere assoluto – ab-solutus: sciolto, slegato, scollegato – perché non è coinvolto in quel patto o contratto che è unilaterale perché stipulato da soli uomini di natura che ora, nello stato positivo, sono diventati sudditi.
Si tratta di un potere totalitario e terribile che porta con sé il monopolio legittimo della violenza, sempre al solo fine di mantenere la pace, e che si estende ben oltre la sfera politica: come dimostra il frontespizio della prima edizione del Leviatano (vedi immagine di copertina) il monarca raffigurato tiene in una mano la spada, simbolo del potere politico, e nell’altra il pastorale, simbolo del potere religioso. Il Leviatano, proprio come il monarca inglese, è anche il capo della Chiesa e decide della morale, stabilisce, senza nulla invidiare nulla a un Hitler o a uno Stalin, che cos’è il bene e che cos’è il male.
Il potere del Leviatano, paragonato a un dio mortale, ha pochissimi limiti: non può imporre ai suoi sudditi di autoaccusarsi, non può obbligarli a fare del male a sé stessi o ai propri cari, né può vietargli di difendersi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Thomas Hobbes: vita e pensiero del filosofo del Leviatano
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