Questo articolo si pone come una critica al pensiero espresso da Umberto Eco riguardo l’uso dei dialetti fuori dall’ambito sentimentale, poetico e comico, evidenziando il pregiudizio ideologico del romanziere.
In realtà, nei secoli, l’ampia produzione dialettale italica ha abbracciato tutti i generi letterari e anche la filosofia.
Nel 1605 fu pubblicato un interessante testo anonimo in pavano: il Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova, ossia una riflessione tra due contadini di Brugine (un paese della provincia di Padova, oggi famoso per il suo mercato dell’antiquariato) sulla Supernova di Keplero, apparsa nell’ottobre del 1604.
Lo scritto illustra concetti scientifici con il lessico semplice di due braccianti e, sin dagli studi di Antonio Favaro (1847-1922), si sospetta che il suo autore sia Galileo Galilei, il quale trascorse nella città di Antenore quelli che definì i diciotto anni migliori della sua vita.
Forse lo scienziato lavorò al copione a quattro mani con Girolamo Spinelli (1580?-1647), un giovane monaco benedettino suo amico, tuttavia la questione della paternità del testo è ancora parzialmente dibattuta (si può rimandare alla relazione di Camillo Semenzato, “Ruzante e Galileo”, in “II Convegno internazionale di studi sul Ruzante”, Padova 27/28/29 maggio 1987, Corbo e Fiore, Venezia 1989).
L’apparizione di una supernova era un evento di grande portata, in quanto bastava a sollevare dei dubbi sulla veridicità di ciò che affermavano i peripatetici riguardo l’immutabilità del cielo sulla scia di Aristotele e Tolomeo.
L’opera è estremamente vivace e ci dà conto di un aspetto importante della cultura veneta della sua epoca: le persone istruite, a Venezia come a Padova, sapevano esprimersi sia in vernacolo che in italiano e non abbandonarono mai il primo in favore del secondo. Utilizzare il padovano o il veneziano non era considerato un segno di ignoranza, né un limite all’ampliamento della propria cultura o alla conoscenza di altre lingue.
Umberto Eco e l’uso dei dialetti
Di parere diametralmente opposto riguardo la sopravvivenza di un simile bilinguismo ai nostri giorni si mostrò invece Umberto Eco nel suo articolo El me’ Aristòtil apparso su L’Espresso il 17 settembre 2010, in cui lo scrittore si mostrò stupito dell’esistenza in rete di voci enciclopediche in vernacolo, irridendo l’uso dei dialetti per trattare di argomenti “colti”, poiché le lingue cosiddette "locali" sarebbero precluse a qualsiasi apertura in tal senso.
Secondo Eco:
Infatti il dialetto, ottimo per il comico, il familiare, il concreto quotidiano, il nostalgico-sentimentale, e spesso il poetico, alle nostre orecchie deprime i contenuti concettuali nati e sviluppatisi in altra lingua. Chiedetevi perché "il pensiero di Aristotele ha come tema principale la sostanza", tradotto in tedesco non fa ridere, e tradotto in veneto sembra Arlecchino servo di due padroni.
Sicuramente lo scrittore era a conoscenza dell’esistenza del Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene, nonché di numerosi altri trattati filosofici scritti nelle lingue venete in varie epoche, ma non li cita poiché non sono funzionali al suo discorso. L’articolo El me’ Aristòtil in buona sostanza è un banale attacco al leghismo, apertamente dichiarato con la battutina:
È però curioso che manchi [nell’enciclopedia digitale] la versione in lombardo, segno che l’iniziativa non risale ai sindaci leghisti che mettono i nomi delle strade in dialetto (o costoro non hanno mai sentito parlare di Aristotele).
La conclusione dell’invettiva di Eco è ciò che lascia più perplessi:
Tornare alla conoscenza del dialetto (o non perderla) è fondamentale per conservare le nostre radici, ma sostituire i dialetti alle lingue nazionali, come vogliono alcuni sconsiderati, significa ripiombare nel ghetto tante popolazioni che avevano avuto la possibilità di guardare al di là dei confini del loro villaggio.
Ma che legame ci sarebbe tra la stesura di un’enciclopedia in un qualsiasi dialetto e la sostituzione dell’italiano? Forse il romanziere, data l’età, non aveva ben chiaro il funzionamento della rete. Che nell’ultima fase della sua vita Eco fosse scivolato in ciò che i giovani definirebbero “boomerismo” è un’ osservazione condivisa da più di un lettore.
L’autore de Il nome della rosa era un opinionista di punta del progressismo, animato da un europeismo viscerale (e talvolta scollegato dalla realtà), tanto che nell’articolo di Gianni Riotta dal titolo Scommetto sui giovani nati dalla rivoluzione Erasmus, apparso su “La Stampa” il 26 gennaio 2012, è contenuta una dichiarazione di Eco che mette ancora tristezza dopo ben undici anni:
La chiamo una rivoluzione sessuale, un giovane catalano incontra una ragazza fiamminga, si innamorano, si sposano, diventano europei come i loro figli. Dovrebbe essere obbligatorio, e non solo per gli studenti: anche per i taxisti, gli idraulici, i lavoratori. Passare un periodo nei paesi dell’Unione Europea, per integrarsi.
Eco sognava quindi di “deportare” in giro per il continente operai e idraulici, senza specificare di cosa materialmente questi lavoratori avrebbero dovuto occuparsi durante i loro “Erasmus forzati" (o soggiorni obbligati?). In verità Eco ignorava anche che parecchi “taxisti, idraulici e lavoratori”, pur facendo dei sacrifici, viaggiano già...e forse in luoghi che il professore non ha mai visitato.
Nella sua disquisizione sui dialetti, Umberto Eco non aveva un vero obiettivo, bensì propriamente un bersaglio: da progressista desiderava demolire il suo nemico politico e, in un sistema di settarismo partitico (come quello in cui viviamo), tutto è sacrificabile in nome della vittoria elettorale.
L’importanza e la nobiltà dei dialetti: un patrimonio da tutelare
Dialetti e culture locali per i progressisti possono anche essere messi al bando purché alla loro fazione sia garantito di governare, ma per farlo prediligono agire secondo la vecchia logica dell’egemonia culturale: con un intellettuale "alla moda" che esprime un’opinione che tutti citeranno sulla base di un “principio di autorità” per ostentare cultura e presunta apertura mentale.
Restituire a una strada il suo toponimo storico in dialetto, riflettendoci seriamente, è un’operazione culturale nobile e importante, ma Eco nella prima riflessione che è stata citata non contempla questa possibilità e irride aprioristicamente l’uso del dialetto nella toponomastica e fuori dall’ambito comico-affettivo per il puro gusto di colpire un partito politico, senza curarsi delle conseguenze dello svilimento della dignità di una lingua su un giornale di tiratura nazionale.
Nel suo antileghismo, Eco non si rese conto che le sue posizioni sul dialetto sono in fondo accostabili a quelle nazionaliste di un filosofo di estrema destra da lui detestato: Julius Evola, il quale in un articolo pubblicato sulla rivista “La Torre” mostrò aperto disprezzo per il culto del dialetto e per le piccole patrie.
Si può osservare che, nella sua guerra globalista alle identità municipali e regionali, il progressismo finisce talvolta per allearsi con il nazionalismo e le destre.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Umberto Eco e la dignità dei dialetti: un pensiero critico
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