di Alice Figini
Oggi 5 gennaio 2022 Umberto Eco avrebbe compiuto novant’anni. Se n’è andato purtroppo sei anni fa, il 19 febbraio 2016, lasciando un vuoto devastante nel mondo intellettuale italiano.
Perché Eco era il mago dell’analisi arguta, del commento costruttivo e talvolta irriverente, dell’osservazione acuta sulla realtà attuale. Ciò che oggi più manca di lui è proprio questa lucidità dello sguardo che proiettava su ogni cosa illuminandola di una luce nuova.
Cosa direbbe oggi Umberto Eco? È proprio dal peso di questa domanda e, soprattutto, dall’assenza della sua risposta che possiamo determinare quanto sia incolmabile la perdita di Eco per il mondo culturale attuale.
Per determinare il lascito di Umberto Eco dobbiamo innanzitutto decostruire la sua vita, analizzare la sua produzione letteraria, annullare l’idolo e ritrovare l’uomo.
Umberto Eco e la semiotica interpretativa
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Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, Umberto Eco fu un semiologo, filosofo e prolifico scrittore. Della semiologia, la sua materia di specializzazione, Eco fece il cardine del suo pensiero che espresse ne Il Trattato di semiotica generale: dallo studio dei segni linguisti determinò che l’interpretazione dell’oggetto muta a seconda delle persone che lo considerano cosicché in base al punto di vista varia l’oggetto (o il testo) interpretato. Ne consegue che la verità non è mai univoca, ma si struttura sulla base di un infinito processo interpretativo.
Ecco Umberto Eco fu la più perfetta rappresentazione di questo “processo interpretativo”: la sua acuta analisi del reale prendeva spunto proprio da quella stessa “semiotica interpretativa” da lui creata. Eco chiama “contenuto nucleare” quello costituito dalla somma delle diverse interpretazioni e concezioni dell’oggetto in uso. Il significato, dunque, viene determinato dalla nostra esperienza generale o conoscenza del mondo, va a sommarsi a stereotipi e altre strutture culturalmente predefinite che abbiamo appreso nel tempo.
Umberto Eco applica la sua teoria dell’interpretazione alla letteratura ma anche al mondo in generale, affidando all’individuo un ruolo attivo come lettore e quindi come coscienza determinata.
Come scrisse nel libro I limiti dell’interpretazione pubblicato per la prima volta nel 1990 e ora riedito da La Nave di Teseo:
Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell’interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita.
E in conclusione:
Ora penso invece che il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità.
Questo elogio della libertà d’interpretazione racchiude in sé la statura intellettuale di Umberto Eco, benché appaia riduttivo definire la sterminata produzione letteraria del Professore in poche righe.
Umberto Eco e il fenomeno bestseller de Il nome della rosa
A Eco va inoltre riconosciuto di essere riuscito in un’impresa epica per un intellettuale: diventare un autore best-seller.
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Di solito i filosofi, gli eruditi, restano scrittori di nicchia, le cui pubblicazioni sono apprezzate da una ristretta cerchia elitaria di lettori. Umberto Eco invece sbalordì il mondo intero con il fenomeno bestseller de Il nome della rosa, il suo romanzo più celebre, che venne tradotto in più di cento lingue e ha venduto un totale di circa 60 milioni di copie.
Il libro rappresentò la prima prova letteraria dell’Eco erudito e studioso che lasciava il campo accademico per cimentarsi nel genere del “giallo storico”.
Il romanzo fu accolto con favore da migliaia di lettori, nonostante lo specialista britannico del genere, Ken Follett, disse di trovarlo noioso e troppo descrittivo e di preferire alla scrittura di Eco quella dell’americano Dan Brown.
Malgrado la stroncatura di Follett, Eco si difese bene raggiungendo il successo internazionale. Il mondo intero lo plaude come l’autore de Il nome della rosa, ma di Umberto Eco forse sarebbe più opportuno ricordare non tanto il Medioevo caricaturale e romanzesco narrato nel suo libro più famoso quanto la straordinaria innovazione dei suoi saggi critici.
Numero Zero: l’ultimo romanzo di Umberto Eco
Negli ultimi anni della sua vita Umberto Eco si era soffermato sull’analisi della comunicazione nella società di massa, prendendo posizione anche nel dibattito infuocato sui Social Network. In quell’occasione disse che “i social network danno parola a legioni di imbecilli”.
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Ma il suo pensiero più radicale è contenuto nella sua ultima pubblicazione per la Nave di Teseo Numero Zero, dato alle stampe proprio il 5 gennaio 2015 nel giorno del suo compleanno.
Numero Zero è un giallo poliziesco che si intreccia con la storia d’Italia e racchiude una lunga pantomima sull’informazione dei giorni nostri. Servendosi degli anni ’90 come metafora del tempo attuale Eco con ironia prende in giro certi “scribacchini quotidiani” che cercano di spacciare per vere delle storie scritte a tavolino, dei rimpasti ristampati, delle fonti non citate.
In particolare in quel libro Eco scrive una frase che appare come una profezia nella nostra era Social caratterizzata dall’invasione delle fake news:
La cultura è la capacità di filtrare le informazioni.
Cosa direbbe Umberto Eco della situazione attuale?
Quanti fiumi di parole pronuncerebbe sulla pandemia, sulle discussioni che oggi infiammano l’opinione pubblica? Il silenzio che segue queste domande è assordante, poiché più di tutto manca il riferimento - la sapienza lucida - che Umberto Eco incarnava tramite la sua interpretazione imparziale.
Oggi possiamo rintracciare la sua opinione attraverso i suoi scritti, ricomporla tramite un’accurata analisi delle parole da lui pronunciate. Possiamo fare nostra la lucidità di sguardo di Umberto Eco, la sua capacità di guardare il mondo attraverso la lente di approfondimento della cultura; ma certo non è la stessa cosa.
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di Elisabetta Bolondi
Per i 90 anni che oggi avrebbe compiuto Umberto Eco, desidero condividere qualche riflessione. Ho amato questo intellettuale sin dai tempi dei miei corsi d’aggiornamento di insegnante di lettere: semiotica, filosofia del linguaggio, linguistica erano materie nuove, stimolanti.
Poi il Diario minimo, la fenomenologia di Mike Bongiorno, l’elogio di Franti hanno fatto parte integrante della mia didattica con gli studenti del triennio delle superiori. I romanzi di Umberto Eco, in modo speciale Il nome della rosa, facevano parte dei moduli didattici di storia e letteratura, mentre le famose Bustine di Minerva, le riflessioni pubblicate sull’ultima pagina del settimanale L’Espresso, servivano per le esercitazioni per preparare per gli esami di stato il saggio breve o l’articolo di giornale.
Eco, imitato da Fiorello alla radio, era un mito, intelligente, ironico, spiritoso. Un vero gigantesco maestro che ha saputo insegnare che non ci sono generi alti o bassi, ma solo cultura, necessaria a vivere bene. Le sue riflessioni sull’importanza della lettura sono state la mia stella polare di cittadina e insegnante, e il suo magistero morale resta una pietra miliare per chiunque ami la lettura e lo studio. Le migliaia di libri di carta della biblioteca sterminata di Eco ci fanno riconciliare con il sapere, ripensando alla magnifica biblioteca immortalata nel film tratto dal suo romanzo più famoso.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 90 anni di Umberto Eco: cosa ci ha lasciato
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