Nelle pagine corsare di Pier Paolo Pasolini troviamo una citazione preziosa che, negli anni, è stata manipolata, trasformata e distorta sino a diventare un lungo discorso che, nella realtà, l’autore non ha mai scritto né pronunciato.
Ne riportiamo di seguito il testo originale, estratto dal numero 42 della rivista settimanale affiliata al Partito comunista “Vie Nuove” (28 ottobre 1961), unito a una riflessione sul perché è necessario riscoprire il valore della sconfitta.
“Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con metodi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù...”
Queste le parole originali di Pasolini che circolano sul web in una forma diversa. Il testo in questione è scritto da Rosaria Gasparro, maestra elementare, di cui riportiamo un estratto:
“Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce.”
Il testo di Gasparro, erroneamente attribuito a Pier Paolo Pasolini, si può leggere come una riflessione e un’interpretazione delle parole dello scrittore corsaro. È vero, Pasolini educava alla sconfitta, riteneva gli ultimi migliori dei primi; e, così facendo, ci ha dato una grande lezione di umanità, utile soprattutto ai giovani che si trovano a fronteggiare una società ammaccata, basata su un’idea di “persona vincente” che, in realtà, si rivela marcia all’origine.
L’elogio della sconfitta di Pasolini
L’elogio della sconfitta di Pasolini merita di essere riscoperto nel suo valore educativo. Anche il falso pasoliniano, scritto da una maestra, che circola in rete ci offre uno spunto più approfondito di riflessione sul significato pedagogico del fallimento.
Nell’imminenza degli esami di maturità, ormai alle porte, la lezione di Pasolini diventa ancora più attuale, perché ricorda agli studenti che non devono sentirsi definiti da un voto né tantomeno essere, per forza, i migliori, gli eccellenti, i cento e lode.
Parole salvifiche in una società che ormai punta tutto sul successo, l’individualismo, la realizzazione personale, il denaro, la ricchezza, i traguardi. Sin dal primo giorno sui banchi di scuola si raccomanda ai bambini di essere “i primi della classe”, come se questo fosse un vanto e non, magari, un talento, un’attitudine; abbiamo imparato a elogiare il sacrificio solo in virtù del risultato ottenuto e questo è un male. Perché nella vita non si può sempre vincere ed educando i giovani secondo questo concetto esasperato di autorealizzazione (il gradino più alto, non a caso, della piramide dei bisogni di Maslow) li rendiamo frustrati, stanchi, perennemente insoddisfatti, pronti a cadere come birilli dinnanzi al primo colpo sfavorevole, al primo gesto di disapprovazione.
Pasolini, il perdente e il valore educativo della sconfitta
L’elogio della sconfitta rientra perfettamente nella cornice ideale pasoliniana che si faceva portavoce del pensiero libero, del pensiero critico, della “direzione ostinata e contraria”, per dirla con Fabrizio De André.
Da intellettuale, P.P.P. guardava con orrore alla società capitalistica che puntava all’omologazione, alla riduzione dell’uomo a merce, alla svalutazione del pensiero astratto e, di conseguenza, dei romanzi, dei libri, degli stessi poeti. Aveva sempre fatto i conti con il pericolo dei conformismi, come emerge anche dal poema Al Principe.
Oggi, col senno di poi, si attribuisce al pensiero pasoliniano un valore profetico, poiché aveva intuito la potenziale deriva della società di massa ora esasperata dall’avvento dell’era social. Il rifiuto del presente che accendeva come una fiamma viva i discorsi dello scrittore corsaro si traduceva nella denuncia del consumismo, del potere, dell’alienazione.
Tutti questi ragionamenti convergono, a ben vedere, nella sua riflessione sul valore del fallimento: la società consumistica riduceva l’uomo a merce e celebrava l’idea del vincente, del ricco, dell’uomo di successo che - come ribadito dallo stesso autore - spesso arrivava al potere in modo sleale, disonesto, tramite sotterfugi o calpestando la dignità altrui.
Pasolini non si limita a elogiare il perdente in quanto tale, ma lo difende nella sua onestà, nella sua dignità di uomo, nell’importanza del suo sacrificio, della corsa che gli ha tolto il fiato: meglio chi non arriva primo, ma tiene stretti i propri valori e non si lascia corrompere, non diventa meschino, adulatore o malvagio. Spesso raggiungere e mantenere una posizione di potere significa soccombere alla logica del compromesso, oppure agire in nome di una presunta superiorità rispetto agli altri: questo era ciò che Pasolini rifiutava, facendo così orgogliosamente del proprio rifiuto una “virtù”.
Così facendo l’autore scombina le carte in tavola e ci mostra il volto giusto, onesto, pietoso del fallimento. In una società che ci vuole omologati, tutti vincenti e perfetti, sino alla perdita della nostra vera identità, di ciò che ci rende unici, Pasolini indica la figura del perdente come un’entità salvifica: c’è del valore anche nella sconfitta, un insegnamento, una parte fondamentale di esperienza umana che chi è abituato a vincere non può conoscere.
Le parole di Pasolini avevano sempre un fine pedagogico; del resto, all’inizio della sua carriera, nei primi anni romani, era stato insegnante in una scuola media di Ciampino, si alzava alle sette del mattino per recarsi in orario al lavoro. Si sacrificava e, come da lui stesso dichiarato, “lavorava come un cane”. Ai suoi studenti insegnava il pensiero libero, l’autonomia, il coraggio e il significato della parola “sacrificio”. L’errore, del resto, ha sempre avuto un valore pedagogico capitale, come insegna il detto ormai usurato “sbagliando si impara”. Pasolini non voleva studenti perfetti, ma menti pensanti, consapevoli. E nella sconfitta è compresa una lezione di resilienza fondamentale per acuire la consapevolezza dei propri limiti e dei propri obiettivi.
Nel fallimento c’è la vera formazione; non nell’inseguimento del mito effimero della perfezione. Il rischio sennò è di essere circondati da frotte di studenti modello che, in realtà, sono solo delle teste vuote perché hanno imparato la lezioncina a memoria per ottenere il bel voto. Pier Paolo Pasolini allargava il sistema educativo scolastico alla vita vera: l’elogio della sconfitta era una lezione valoriale universale, in grado di parlare al privato di ogni coscienza. Perché perdere non significa aver rinunciato a raggiungere il traguardo; ma significa avere maggiore consapevolezza del proprio percorso e nutrire la caparbietà tenace di chi non vuole arrendersi neanche di fronte all’ingiustizia.
L’origine della poesia civile pasoliniana è tutta qui, nella sua antropologia della sconfitta, nella comprensione del proprio “sacro poco”.
Se gli uomini fossero tutti “perdenti”, come lo è stato Pasolini, il mondo forse sarebbe un posto migliore.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Io sono un uomo che preferisce perdere”: la lezione di Pasolini sul valore della sconfitta
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