

Francesco Hayez, Ritratto di Massimo D’Azeglio (1860); Milano, Pinacoteca di Brera / Public Domain, via Wikimedia Commons
Nella giornata di oggi, 17 marzo, si celebra la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, che anche noi vogliamo ricordare riscoprendo il significato e l’origine della celebre frase Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani.
Fu, infatti, il 17 marzo 1861 che Vittorio Emanuele II, già monarca del Regno di Sardegna, promulgò la legge n. 4671, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il giorno successivo, con la quale assunse per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia: così nasceva, ufficialmente, il nuovo stato italiano, dopo un lungo e travagliato processo di unificazione.
L’aforisma Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani ci ricorda, però, che a questo nuovo stato non corrispondeva ancora una nazione, una cultura e un sentire comune che mettessero davvero insieme tutti gli abitanti dello Stivale. Dovremmo allora chiederci perché si arrivò a formulare un giudizio del genere e quale fosse la situazione storica e politica che portò a pronunciarlo.
In occasione della Giornata dell’Unità nazionale riscopriamo, allora, insieme qual è il significato della frase Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani e chi l’ha detto per primo.
L’Italia e gli italiani: una difficile unificazione
Per comprendere a pieno il significato del nostro motto non è il caso di richiamare l’intera storia del Risorgimento, le alterne vicende di due guerre di Indipendenza e la rocambolesca spedizione dei Mille; mi pare, invece, più utile evidenziare alcuni elementi e alcune vicende storiche che, forse secondarie, possono permetterci di lumeggiare meglio la situazione del nuovo stato unitario e dei suoi abitanti durante e subito dopo l’unificazione.
L’impresa unitaria fu in gran parte caldeggiata e realizzata da una classe borghese animata già da qualche decennio da un variegato sentimento nazionale che accomunava repubblicani democratici alla Mazzini, monarchici come Cavour, federalisti come Carlo Cattaneo e Vincenzo Gioberti.
Nella seconda metà dell’Ottocento il sentimento nazionale era almeno in parte penetrato anche nelle classi popolari: Vittorio Emanuele II si proclamò Re d’Italia non solo per il voto di un Parlamento, ma anche a seguito dei tanti plebisciti che negli antichi Stati Italiani ne approvarono l’ascesa al nuovo trono.
Non tutte le classi sociali, però, ottennero gli stessi benefici dall’unificazione: già durante la spedizione dei Mille, i fatti di Bronte dimostrarono che le aspettative dei contadini erano destinate a rimanere frustrate.
D’altra parte, poi, Vittorio Emanuele II mantenne lo stesso nome come monarca del Regno di Sardegna e come re d’Italia, non cambiò la numerazione del proprio nome: ciò tradiva l’intento di rendere il nuovo stato unitario un’estensione del vecchio regno sabaudo. I decreti emanati nell’Ottobre 1861 non fecero altro che confermare questa intenzione: il modello amministrativo sabaudo era esteso alla nuova Italia; le prerogative del ministro dell’Interno e dei prefetti confermavano quel modello di stato accentrato che poco o nulla concedeva alle ipotesi di decentramento e di autonomia che tanta parte avevano avuto nel federalismo risorgimentale e che riecheggiavano anche negli accordi di Plombiers.
Questa impostazione politica, congeniale ai primi governi della Destra Storica, scontentò molti che speravano di conquistare una maggiore autonomia: soprattutto al Sud, nei primi decenni dell’unità, il brigantaggio fu una reazione quasi fisiologica a questo assetto politico: chi decideva di ribellarsi allo stato e di darsi alla macchia era animato dalla convinzione che i politici (in gran parte) sabaudi fossero degli usurpatori piuttosto che dei legittimi governanti.
Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani: cosa significa
Tra i federalisti che non videro realizzate le loro proposte politiche c’era anche il marchese Massimo d’Azeglio al quale viene attribuita la paternità del nostro motto.
Quando affermava che l’Italia era stata fatta il patriota piemontese intendeva dire che il processo politico di unificazione era grosso modo compiuto. Era nato un nuovo stato con dei confini ben delineati e una struttura politica uniforme. Certo, nel 1861 mancava ancora qualche tassello ma ci vorrà poco: nel 1866, con la terza guerra di Indipendenza, verrà annesso anche il Veneto, poi, nel 1870 sarà la volta di Roma, con la breccia di Porta Pia.
Capire cosa significhi fare gli italiani, invece, è meno immediato. Si potrebbe tradurre con l’espressione fare dell’Italia una nazione, tenendo presente che quest’ultimo termine, almeno quando si parla di Storia, non è sinonimo puro e semplice del termine stato, ovvero non indica l’unità politica, amministrativa o giuridica, quanto piuttosto l’unità culturale, la pratica degli stessi usi e costumi, delle stesse tradizioni, soprattutto della stessa lingua. Come scopriremo nel prossimo paragrafo è proprio la lingua ciò che aveva in mente Massimo D’Azeglio quando diceva che bisognava fare gli italiani.
Qui, però, è opportuno sottolineare che oggi, quando la celebre frase Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani ed espressioni simili vengono riesumate, assumono un significato più ampio. Generalmente si allude, infatti, alla necessità di costruire un sentimento di appartenenza diffuso alla stessa comunità nazionale che sembra ancora latitare. Molti potrebbero essere i fenomeni ai quali quest’accezione del nostro modo di dire si attaglia perfettamente ancora oggi, ne citiamo uno su tutti: l’evasione fiscale. Una pratica che per la sua diffusione unifica davvero gli abitanti del nostro Paese, senza farne ancora dei cittadini. Ci chiediamo spesso perché dobbiamo aspettare più di un anno per una visita specialistica in un ospedale, perché per frequentare una scuola statale si debbano pagare delle tasse d’iscrizione, perché per avere l’esito di un concorso pubblico o di un ricorso occorra attendere mesi e mesi. Perché, insomma, lo Stato sia inefficiente. Non solo perché mancano le risorse, certo, ma, di certo, anche per quello.
Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani: chi l’ha detto
Congediamoci, però, dal presente e torniamo al nostro più rassicurante passato: come abbiamo anticipato la paternità della frase Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani è di Massimo D’Azeglio, nobile piemontese, pittore e scrittore, patriota dalle posizioni politiche federaliste, che nella prefazione a I miei ricordi (pubblicato nel 1867, un anno dopo la sua morte) scriveva:
“Il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani dotati d’alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gl’Italiani”
Per capire che cosa intendesse dire D’Azeglio vengono in soccorso le dichiarazioni di Ferdinando Martini, senatore e ministro dell’Istruzione pubblica nel primo governo Giolitti che, in uno scritto della fine dell’Ottocento, riporta una dichiarazione che Massimo D’Azeglio rilasciò in un dibattito pubblico:
“Se vogliono fare l’Italia, bisognerà che pensino prima a fare un po’ meno ignoranti gli Italiani”.
Massimo D’Azeglio, allora, quando affermava che c’era ancora da fare gli Italiani, intendeva dire che la maturità culturale, morale e civile del nostro popolo dipendeva in gran parte dall’istruzione e dalla scolarizzazione. All’indomani dell’unità d’Italia, i tassi di alfabetizzazione erano molto bassi in quasi ogni parte del regno, e anche quelli che parlavano davvero l’italiano erano una minoranza ristretta, tanto erano diffusi e praticati i dialetti.
Dopo più di un secolo e mezzo si può affermare che l’unità linguistica è grosso modo raggiunta, grazie all’obbligo scolastico ma anche grazie a quella leva obbligatoria che per tanto tempo impose ai giovani di tutte le regioni a trovare un codice condiviso per comunicare.
La maturità morale e civile del nostro popolo, invece, dovrebbe essere ancora oggi oggetto di accurata riflessione, soprattutto quando si tolgono risorse alla scuola o quando quelle stesse risorse le si impiega, ad esempio, per acquistare l’ennesima inutile lavagna integrata multimediale.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Abbiamo fatto l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”: significato e chi l’ha detto
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