Non ho interesse alcuno per la matematica; ignoro completamente la teoria delle funzioni di variabili reali, e calcolare una semplice radice quadrata è per me ancora oggi una missione pressochè impossibile. Ho un interesse profondo invece per Renato Caccioppoli (1904- 1959) e per la sua anima, il che mi fa sentire per inciso un po’ più prossimo e fraterno a un altro mio grande e irraggiungibile amore intellettuale, Andrè Gide.
Il mio interesse ha radici antiche, che risalgono agli anni consacrati per antonomasia nella vita d’un uomo agli innamoramenti: quelli dell’adolescenza. Il mio primo casuale incontro con Caccioppoli avvenne, galeotto Luciano De Crescenzo, tra le pagine del secondo volume della sua Storia della Filosofia greca (Mondadori, 1986) in cui, in poche righe dense di ammirazione e devozione, l’ingegnere-filosofo, che ne seguì le lezioni, tratteggia di Caccioppoli un profilo memorabile, enfatizzando soprattutto le eccentricità e i paradossi verbali (“Non ho certezze, al massimo probabilità”) che hanno contribuito ad avvolgerlo in un’aura leggendaria, a farne un personaggio più mitologico che reale. Di quelle poche pagine, che hanno il merito di aver contribuito a far conoscere “il genio” di Caccioppoli oltre la cerchia ristrettissima degli specialisti, riducendone a icona, ossia a una misura calcolabile, misurabile, e forse in un certo qual modo banalizzabile, l’aspetto, che resta indeducibile nel suo mistero, della sua sensibilità estrema e di una profonda intelligenza interiore, mi resta soprattutto il ricordo in bianco e nero di una foto giovanile di Caccioppoli ,così esile ed elegante nella sua trasandatezza, da sembrare un dandy da cartolina.
Il film Morte di un matematico napoletano
Ma la vera fulgorazione sarebbe arrivata qualche anno dopo, nel 1992, quando da matricola universitaria accompagnai un po’ di malavoglia un compagno di studi, frequentatore compulsivo di cineforum e di cui fin dal giorno successivo persi le tracce, in un cinema alla periferia della mia città natale per vedere Morte di un matematico napoletano, opera prima del regista Mario Martone. La fulgurazione fu duplice: per Caccioppoli (impersonato nella pellicola dal volto impassibilmente ironico e sofferto di Carlo Cecchi), e per il cinema stesso, che da quel momento è stato, è rimasto e rimarrà per me, con la poesia, il luogo privilegiato, l’unico possibile, da cui poter guardare le cose, comprendendole in una forma di visione.
Il film racconta gli ultimi giorni del matematico prima del colpo di pistola che metterà fine, l’8 maggio del 1959 (Caccioppoli aveva da poco compiuto cinquantacinque anni), alla sua esistenza. In realtà più che un racconto è la rappresentazione, dissimulata dietro la scansione diaristica in date, giorni e ore che conducono al momento fatale, di una morte che si realizza, componendosi in una forma compiuta e combaciante con la forma incompiuta di una vita inerte e ormai del tutto prosciugata. L’impatto emozionale dell’opera cinematografica di Martone (che risente nel ritmo, nella recitazione e nell’articolazione dei tempi scenici della lunga e produttiva militanza del regista nel teatro di sperimentazione) consiste innanzitutto nell’aver dato forma all’anima tormentata di Caccioppoli che tanto aveva sedotto Gide durante il loro incontro napoletano, nella sua autentica e contraddittoria umanità.
Matrone sottrae Caccioppoli all’inamidata fissità della leggenda, mediante soprattutto la scelta di un montaggio anacronistico delle sequenze, che incrociano la linearità del tempo cronologico — paragonabile ai granelli di sabbia di una clessidra che lentamente si svuota — con la durata interiore e il “falso movimento” di una coscienza ferma nell’irrevocabilità della sua decisione. Un anacronismo che produce nell’occhio e nella sensibilità dello spettatore un’impressione tattile di lacerazione e di dissanguamento, di una vita che autoamputandosi si distacca con un taglio, una recisione netta e meditata.
Il corpo di Caccioppoli nelle sequenze del film si muove e al contempo è fermo come un anacronismo vivente nel corpo e nelle fenditure di una Napoli nobile e popolana che lo accoglie e contemporaneamente lo scaccia nel suo ventre brulicante di vita e intaccato dalla morte: un corpo esile e indifeso all’apparenza, immerso in quell’altro corpo maestoso che è la città, che non basta tuttavia a contenerlo. Napoli diventa pertanto nel susseguirsi delle sequenze lo spazio fisico e mentale di una prigionia senza sbarre che Renato percorre attraversandone furiosamente strade e vicende, aderendo come una cartilagin alla sua carne, cercando una fusione con essa che è come uno sperdimento, sprofondandovi mentre vanamente cerca una via di fuga; la linea di un limite da oltrepassare, nel presentimento di uno iato incolmabile, di un destino in cui una vita intera arde e si consuma nella propria ineluttabile solitudine. Ricordo una scena, quasi sul finale, in cui Renato, ubriaco, correndo con passo incerto e voltandosi frequentemente indietro, come a misurare la distanza da un assalitore che lo insegue, si rifugia nell’oscurità di un vicolo appena prima che la luce, con la sua flebile lama, lo raggiunga.
“Il mondo delle verità fisiche come di quelle matematiche” afferma Caccioppoli in risposta alla domanda estemporanea di uno studente durante una pausa della lezione, “è chiuso come una sfera. Ogni nuova visione più profonda è una fuga da questa specie di prigione. Si possono avere delle resistenze a fuggire oppure non se ne può vedere proprio una ragione”.
Ma più dei dialoghi e della sceneggiatura è nella fotografia del film, con l’effetto di suspense dei suoi chiaroscuri caravaggeschi, che questo dissidio, investendo il limite tra parola e vita ("Questa è la parola e questa la vita. Vedi? La sfiora appena, ma non l’afferra"), visione e buio, si configura acquisendo un rilievo drammatico, riflettendo come un tableau vivent, icastico e potente, quell’altro contrasto, tutto interiore alla coscienza del matematico, tra energia creativa e languore, lavoro febbrile della mente e inerzia del corpo, entusiasmo e spleen autodistruttivo.
È nella profondità di questo dissidio inconciliabile (mi domando) che risiede il fascino intatto di Caccioppoli, che sopravvive alla sua stessa morte e si impone anche sulle aneddotiche e le mitografie cucitegli addosso, talvolta inventate di sana pianta? È per questo che, anche se non siamo provvisti del suo genio e della sua dottrina, abbiamo bisogno di sapere e capire qualcosa ancora, o tutto, di quest’uomo, della sua vita e del suo mistero? Perché nella sua vita, che fu un dramma di grandezza e solitudine, vi scorgiamo un filo esile e tenace che si tende fino a spezzarsi dall’estremo di una domanda a quello di una risoluzione? L’intelligenza che ostinatamente contende al disinganno e all’orrore dell’"arido vero” (ci si passi la citazione leopardiana, a cui, secondo Gide, Renato somigliava sia nel profilo del volto che nella sensibilità acuta e dolente) ogni possibilità residua di verità e conoscenza; la vita sentita, anche nei suoi risvolti più mondani, come un confine e al medesimo tempo uno sconfinamento; la percezione, nell’immobilità lucida e spietata della coscienza, dello scorrere del tempo e della Storia in tutte le sue potenzialità e contraddizioni; e ancora, la ricerca nel disordine magmatico e nella concretezza brutale della Realtà, tra i vicoli e gli anfratti di Napoli o di ogni altra città del mondo, una variante salvifica dell’ordine e dell’astrazione matematica. Non sono forse, oltre che le declinazioni di una vita eccezionale, anche i fili ancora da riannodare di un sentimento drammatico e a suo modo religioso della vita umana? In cui possiamo riconoscere, ciascuno con il suo percorso e la via di fuga che si è scelto, le risorse possibili dell’intelligenza umana nel suo costante attrito con la sfera chiusa della vita, per verificarne il limite che è insieme la sua prigione e la sua libertà?
“Considerare l’opera di Caccioppoli rimuovendo la sua inquietudine esistenziale, che da questo momento segna comunque e profondamente il suo percorso scientifico, sarebbe un imperdonabile errore”.
L’attrito della vita. Indagine su Renato Caccioppoli matematico napoletano di Lorenza Foschini
Riprendo questa riflessione da un libro di Lorenza Foschini dedicato a Caccioppoli: L’attrito della vita. Indagine su Renato Caccioppoli matematico napoletano (La nave di Teseo, 2022). Già nel sottotitolo troviamo ben impresse in rilievo le chiavi di lettura indispensabili per inquadrare e comprendere le intenzioni dell’autrice e l’ispirazione di queste pagine.
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Il termine “indagine” ha lo scopo di avvalorare la prospettiva di sistematicità con cui l’autrice ricostruisce vita e vicende del suo illustre antenato, ricercando fonti e documenti, esaminandone e riscontrandone obiettivamente contenuti e informazioni, accertando la verità attorno a fatti reali e determinati, sfrondandoli da aneddoti e dicerie, suggestivi ma fuorvianti. Un lavoro dunque rigoroso e paziente, che sembrerebbe situarsi sulla linea di confine tra la logica dell’analisi matematica e la precisione nutrita di creatività del restauro conservativo, e che ha il pregio di ripristinare la statura reale di Caccioppoli, ridotta a icona dalle leggende e mitografie, e di riportarla alla dimensione storica di persona, di “matematico napoletano” — con evidente richiamo al film di Martone. Dunque con un lavoro, una vita, sia pure eccentrica e singolare, scandita in un orizzonte quotidiano di attività, relazioni, vicende pur sempre contestualizzabile in un tempo, un’epoca e in uno spazio, ben definiti.
Un’altra analogia dell’indagine di Foschini con il film di Martone mi è parso di riscontrarla — oltre che nella fusione di immagine e parola, impiegando e intrecciando alla scrittura in funzione narrativa le vecchie fotografie del matematico, dei suoi parenti e amici — ancora una volta nel montaggio peculiare dei capitoli e nel movimento oscillante, sussultorio, dietro l’apparenza di una cronologia lineare, degli eventi narrati. L’autrice ripercorre infatti la vita del grande matematico alternando le visite nei luoghi reali e simbolici della sua esistenza (la riviera di Chiaia, le case abitate da Caccioppoli e dai familiari, il caffè dove incontrò la donna che avrebbe amato e sposato, i salotti mondani, le aule universitarie, le strade in cui sostava ubriaco o passeggiava flemmatico semmai con un gallo al guinzaglio) e le ore di ricerca e lettura nelle sale dell’Archivio di Stato, interrogando documenti e testimonianze polverose ma veritiere.
Un’oscillazione, simile al moto regolare di un pendolo, che instaura una connessione tra il tempo passato del protagonista, e il tempo presente dell’autrice che ne ripercorre le tracce, convitandoli in un luogo comune, che è quello della memoria; ripristinando, attraverso l’accrescimento della memoria mediante la rivisitazione di documenti e di luoghi, una sorta di comunicazione interrotta, un dialogo a distanza.
In tal modo il genio e l’eccentricità sul punto di sconfinare nella follia di Renato ci appaiono finalmente da una prospettiva diversa: un sogno "avido di libertà", piuttosto che un fenomeno isolato e singolare; che già in epoche precedenti si era manifestato nella vita intellettuale della città partenopea mediante altri "matematici, astronomi, scienziati geniali, eccentrici e ribelli che, osservando il cielo, vivono la contemplazione dell’universo come la più estrema e alta configurazione della libertà". Da questa suggestiva angolazione storica e tradizione culturale dunque la vita, il lavoro intellettuale e il genio di Caccioppoli sembrano germogliare anch’essi da quel "seme che ogni tanto misteriosamente fiorisce nell’animo di qualche abitante di questa città ma che altrettanto misteriosamente muore prima di dare i suoi frutti".
Neanche questo ingente sforzo di verità e testimonianza può illuminare pienamente, dunque, quel mistero che è stata, e resta la vita di Renato Caccioppoli. Ne è consapevole, Lorenza Foschini, che infatti, in un capitolo del libro dedicato al breve soggiorno a Napoli di Ettore Majorana, in cui per un’arguzia del destino le vite dei due grandi scienziati si sfiorano, riprende una riflessione acuta di Leonardo Sciascia ispirata dal grande fisico (alla cui scomparsa Sciascia dedicò un raffinato pamphlet, La scomparsa di Majorana, Einaudi, 1975) e incentrata sulle caratteristiche e la predestinazione del “Genio”, che si potrebbe estendere anche al matematico napoletano Renato Caccioppoli; e cioè che il Genio:
“oscuramente sente in ogni cosa che scopre, in ogni cosa che rivela, un avvicinarsi alla morte e che la scoperta, la compiuta rivelazione che la natura di un suo mistero gli assegna, sarà la morte. È tutt’uno con la natura, come la pianta, come un’ape; ma a differenza di queste ha un margine, sia pure esiguo, di gioco; un margine in cui aggirarla e raggirarla, in cui cercare, anche se vanamente, un valico, un punto di fuga."
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Renato Caccioppoli tra cinema e letteratura: variazioni sulla vita di un genio
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