Noi bibliotecari non siamo tra gli eroi. Non rischiamo, i nostri spazi hanno chiuso al pubblico, restiamo a casa, oppure tra le sale vuote ed echeggianti della nostra biblioteca. Lavoriamo in silenzio, in solitaria, facciamo cose che pensano al futuro e, mentre nessuno pensa a noi, noi pensiamo a tutti e ci sforziamo di vedere il dopo.
Ieri sono stata nella biblioteca (chiusa) in cui lavoro, con l’autocertificazione nella borsa, i guanti di gomma che lessano le mani e una mascherina fatta in casa con un vecchio lenzuolo, poi bollita in pentola per sterilizzarla.
La mascherina mi fa appannare gli occhiali, dopo cinque minuti non vedo più nulla e devo toglierli, così vedo ancora di meno.
Nevicava, pure, e quella minuscola porzione di città che ho visto nel tragitto di pochi metri dal parcheggio alla porticina di servizio della biblioteca era di una desolazione mortale. Di solito qui passano sempre tante persone, ci sono le scuole vicine, c’è il convento con la sua Madonnina, la posta e i negozi.
Ho sceso le scale e lavorato in una sala vuota, guardando il cortile in cui, tra l’erba sintetica, hanno cominciato a crescere ciuffi di dente di leone. Sembrava un luogo abbandonato, asettico, insolitamente silenzioso. Sì, perché in biblioteca si deve stare zitti, ma quando è piena di gente il silenzio assoluto è un’utopia irraggiungibile. Si sovrappongono bisbigli, colpi di tosse, fruscii di pagine, ticchettii di scarpe, sedie trascinate sul pavimento, cellulari che squillano a tradimento, risate soffocate.
Invece ieri no, c’era solo il mio di rumore, che le pareti stracolme di libri assorbivano e inghiottivano.
Eppure il lavoro di noi bibliotecari, un po’ da casa, un po’ da qui, continua a fervere. Il macero dei volumi scartati, le variazioni di inventario, la preparazione di vetrine, i progetti di Servizio Civile Universale, le iniziative per i mesi a venire, i nuovi acquisti, gli articoli per le riviste storiche e culturali, gli abbonamenti delle riviste da rinnovare, gli adempimenti amministrativi e poi quella che è l’attività principe della professione, la catalogazione.
A fine mattina, proteggendola dai larghi fiocchi di neve che acquosa e testarda continuava a cadere, ho portato con me una valigia di libri da catalogare, insieme a timbri ed etichette. Ora è in casa, più preziosa di uno scrigno ricolmo d’oro. Quei libri spezzano la tristezza, perché sono un pezzetto di futuro. Sono le mani e gli occhi di chi li leggerà, quando tutto sarà finito. Forse dovranno aspettare un po’, ma intanto li inserirò nel catalogo, nell’inventario, saranno pronti, in bella mostra nella biblioteca vuota, con la grande porta a vetri scorrevole che da quasi un mese non scorre più.
D’accordo, abbiamo la biblioteca digitale Emilib, è importantissima in questo periodo, tanto che hanno deciso di iscrivere le persone anche a distanza. Quella è il presente e ci aiuta. Ma questi libri cartacei, questi sono il futuro e, dopo che li avrò trattati, aspetteranno pazienti il ritorno alla normalità, quando toccare la copertina di un libro della biblioteca non sarà più pericoloso e potremo tornare tutti a sfogliare, ricordando il brutto sogno, quello che nessun genio del brivido avrebbe potuto ideare meglio di così.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Vita di un bibliotecario ai tempi del Coronavirus
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