Magari non ne potete più di sentir parlare di Russia, figuriamoci di Urss, chi potrebbe darvi torto? Se però così non fosse, oppure se avete qualcuno cui fare un regalo natalizio, se siete (o conoscete) lettori interessati a meglio comprendere storie che da quel mondo provengono, abbiamo scelto fra le ultime uscite tre libri, due romanzi e un memoir, utili allo scopo.
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Il primo è il romanzo Lo sterro di Andrej Platonov (minimum fax, traduzione di Ivan Verč) – grande scrittore novecentesco, autore di almeno due capolavori, quello di cui si scrive qui e Cevengur, pubblicato da Einaudi. Osteggiato dalla cultura ufficiale, sottoposto alla censura come troppi altri, il romanzo in questione vide la luce solo nel 1987 (una trentina d’anni dopo la morte dell’autore). Ce lo ricorda il curatore di questa edizione, Ivan Verc, responsabile anche del saggio che precede il romanzo, “Il riscatto della memoria”. Non casualmente, e come in Cevengur, il protagonista principale della storia è un povero cristo, alieno al proprio ambiente sociale e politico – siamo nell’Unione Sovietica degli anni Venti. Voscev viene licenziato, e via via sempre più emarginato perché invece di allinearsi alla macchina produttiva di un comunismo compulsivo – ma Marx non immaginava la liberazione dal lavoro? – si perde (perché cerca di trovarsi) in quotidiane meditazioni filosofiche sul senso della vita. Pensieri inquieti messi in moto proprio dalla grottesca, dispotica mitologia del lavoro, dell’efficienza (non il solo capitalismo ha prodotto mostri) che lasciano per strada chi non ce la fa, chi si permette di dubitare del senso di un’esistenza ridotta al funzionamento piuttosto che all’essere.
“L’amministrazione dice che te ne stavi a pensare durante la produzione”
dicono quelli del Comitato, cui il protagonista chiede spiegazioni sul proprio licenziamento.
“A che cosa pensavi, compagno Voscev?”.
Dovrebbe capire, il compagno Voscev, che al massimo pensare può farlo fuori dal lavoro, senza dimenticare che il partito gli ha messo a disposizione un intero, globale sistema di idee già bello e fatto. Lui invece perde tempo, s’incaponisce a farsi domande, a farle agli altri che mal lo sopportano, dimenticando che non rispettare i ritmi di lavoro può procurargli persino l’accusa di sabotaggio. Un distacco, ironico e malinconico insieme, si apre sempre più fra lui e il mondo che lo circonda. Più che dai fatti, la trama passa, secondo una modalità comune nei libri di Platonov, attraverso la tossicità del linguaggio: non solo “il ritmo”, ma molte altre parole-chiave (parole d’ordine?) tessono le maglie di ferro che imprigionano il sovietico uomo nuovo, costretto in realtà a una sofferenza assai antica, e assai simile allo sfruttamento che il comunismo avrebbe dovuto combattere: “edificazione”, “costruzione”, “entusiasmo” etc, un intero vocabolario di totem simbolici e ingannevoli riempivano gli opuscoli della propaganda coeva.
“Se non lavori che ne puoi sapere della verità”
gli dice un uomo fra i tanti che Voscev incrocia nel suo vagabondare. Lui pensa proprio il contrario, e il mondo continuerà “ad apparirgli incomprensibile”.
Come con Lo sterro, i buoni libri ci danno la possibilità di misurare la vacuità del linguaggio del potere, ossia della menzogna in cui esso vuole costringerci a vivere. Ora, tutti siamo grati ai russi della seconda guerra mondiale per aver contribuito alla sconfitta del nazifascismo, ma ciò non toglie che quanto a retorica intrisa di fuffa non erano da meno di nessuno - e anche su quella bellicista non scherzavano. Mostrarla nuda nella sua programmatica impostura potevi farlo in un tuo diario intimo cui aggrapparti come a una via di fuga, di salvezza, ma pensare di farne un libro saresti apparso ingenuo fino alla stupidità.
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Per questo, Nikolaj Nikulin, soldato partito volontario per il fronte e impegnato a Leningrado fra il ’41 e il ’45 fu costretto a tenere per sé le sue Memorie di guerra. Leningrado 1941-1945 (Guerini e Associati, traduzione Elena Freda Piredda) per un trentennio. Non uno scrittore di professione Nikulin, destinato in futuro a diventare il curatore dell’Ermitage di Pietroburgo. Pur con tutta l’inquietudine possibile, nelle sue pagine registra pazientemente gli umori e la durezza della vita quotidiana in battaglia, il terrore dei soldati di essere catturati dai nemici e quello di cadere in disgrazia presso i superiori, di essere additati come disertori. Lo sguardo soggettivo del soldato per Nikulin non è un’effrazione arbitraria del rigore storiografico ma la sola verità esistenziale della guerra stessa: stare “seduti al gelo, abituarsi a congelare e fare la fame”, giacere in terra fra “schegge e proiettili vaganti”, vedere gli infermieri che “spingevano i cadaveri nelle fosse e li coprivano di terra congelata”. Mostrando la nuda vita di chi frequenta la morte ogni giorno per anni, Nikulin strappa il velo all’immaginario fasullo, criminale che i capi militari russi intrudono nelle menti dei soldati mandati a morire. Con ciò l’autore non intende fare una storia più vera di quegli anni di guerra, non si propone di raccontare fatti altri rispetto alla storiografia ufficiale, né ritiene si possano negare gli autentici momenti di eroismo, ma ricorda che sia gli storici che i memorialisti (e questo lo scrive nel 1975, quando si sarebbe deciso a raccogliere i suoi appunti in un corpo abbastanza organico) eludono “lo sguardo soggettivo” da lui rivendicato per descrivere l’angoscia, la prostrazione e il più deprimente male di vivere vissuto dai soldati in carne e ossa. Vi contribuisce il senso di colpa di chi (come Levi per Auschwitz) resta in vita dopo aver visto compagni e sodali morire sotto i colpi dell’artiglieria pesante (nella quale Nikulin fu peraltro impegnato). E il ricordo di una trasformazione esperita sul proprio corpo – il momento in cui si passa dall’illusorio, dal vago al vero, come accade spesso prima di una guerra: in un primo tempo, nella primavera del ’41, scrive Nikulin, a Leningrado la guerra si percepiva come una cosa forse prossima ma ancora lontana, nell’animazione della città che sentiva parlare del conflitto si alternava un’atmosfera di festa (sic) alla preoccupazione di rafforzare porte e finestre. Tempo tre mesi e la tragedia avrebbe fatto tabula rasa di quegli uomini in balia degli eventi: i più non sarebbero tornati, gli altri “zoppi, senza gambe, nevrastenici, alcolizzati” etc. Il nostro in guerra c’era andato a 18 anni già malaticcio, distrofico (“non valevo nulla come soldato” ha il coraggio di scrivere). Eppure fece ciò che andava fatto, ci sarebbe stato nelle cruente battaglie di Pogost’, ci sarebbe stato a Varsavia, e a Danzica, e fu tra quelli che entrarono a Berlino. Ci sarebbe stato nonostante l’evidenza dell’indecente condotta dei capi, del partito, degli uomini che la propaganda staliniana avrebbe improvvidamente alzato al rango di eroi (su tutti il generale Žukov, vincente si ma feroce con i propri stessi soldati) Anche questa antitetica contrapposizione fra l’implicita denuncia degli orrori della guerra e la tenacia di quello che nel frattempo sarebbe diventa un uomo rende molto interessante questo libro.
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E ancora la lingua sta al centro delle vicende legate al romanzo di fantascienza Picnic sul ciglio della strada, (autori Arkadij e Boris Strugatskij, editore Marcos y Marcos, traduzione di Paolo Nori e Diletta Bacci). Il libro è probabilmente il più noto dei tre, soprattutto per via della rilettura cinematografica che ne fece Tarkovskij nel film Stalker, termine di cui Boris nella prefazione ricostruisce la storia a partire da un’opera di Kipling. I principali attori di questo racconto scritto negli anni Settanta sono dei folli avventurieri (gli stalker appunto) che attraversano la Zona, un’area – meglio, sei aree sparse per il pianeta – che costituiscono un mondo a parte, inquietante, misterioso, pericoloso. La Zona è stata visitata e probabilmente contaminata da alieni. Vi accadono cose straordinarie, a partire dalla gelatina di strega che distrugge all’istante le gambe dei temerari che osano introdurvisi. Gli umani che l’abitavano sembrano in gran parte scomparsi, chi sopravvive sembra uscito da una guerra, mutilato, zoppo, nemmeno del tutto umano. Perché gli stalker vi si avventurano sapendo benissimo che intanto debbono vedersela con la polizia che vi fa la guardia e la Zona è così pericolosa che potrebbero non uscirne vivi? Perché gli alieni, o perfidi scherzi di una natura che tale è diventata, hanno lasciato in giro oggetti enigmatici, dal singolare potere: oggetti che per questo fuori dalla Zona hanno un mercato. Se gli stalker che mettono a repentaglio la loro incolumità producono essi stessi un effetto straniante per il lettore, non è da meno la moltitudine di personaggi intorno a loro, mattoidi la gran parte. Vivono straniamenti reciproci – non diverso dall’orizzonte psichico ed emotivo in cui viene catapultato il lettore. Tuttavia, il tono di fondo è diverso da quello del celebre film che ne derivò, e anche questo ha da fare con la faccenda del linguaggio che si menzionava sopra. Picnic sul ciglio della strada ebbe – caso ennesimo di una triste e accidentata storia - problemi a essere pubblicato benché (ricorda nella prefazione Boris Strugatskij) i due fratelli non fossero particolarmente ostili al comunismo. Ci sarà stato pure l’istinto paranoico del censore, e il pregiudizio nei loro confronti; di sicuro contribuì al misfatto l’idiozia dei guardiani della “legge estetica” del tempo, riconducibile alla dottrina zvanoviana, che innumerevoli danni provocò per decenni: l’opera d’arte, letteratura compresa, doveva contribuire alla fabbricazione dell’uomo nuovo comunista e le “espressioni volgari e gergali”, (s)fortunatamente diffuse nel romanzo eludevano questa patetica, ridicola pretesa di una letteratura edificante. Non fu difficile per i fratelli Strugatskij rendersi conto di quanto fosse vano combattere con l’ottusità del Comitato centrale. Sospettoso, l’orribile Leviatano, della versatilità stilistica di un’opera capace di accogliere volentieri il registro comico – per tradizione, almeno nei casi migliori, irriverente verso il potere. Da aggiungere che il ‘”basso” del romanzo, il brio talora felicemente osceno dei suoi dialoghi non è il mood più diffuso nelle atmosfere distopiche che vanno tuttora per la maggiore. E risultò intollerabile per il regime sovietico – esso sì, diremmo, un’orribile Zona a parte.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Dispacci letterari dall’Unione Sovietica: 3 libri da leggere e regalare a Natale
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